Il problema dell’inquinamento storico, o dell’«eredità storica del processo di industrializzazione del nostro Paese» si è affacciato, negli ultimi decenni, con una portata senza precedenti all’attenzione dell’opinione pubblica, dei mass-media e degli organi giudiziari.  Numerosi sono, infatti, gli episodi che coinvolgono attività industriali nate in passato, ma i cui effetti, maturati e stratificati in via latente negli anni, emergono oggi con impatto devastante sull’ambiente e sulla salute dell’uomo.
Il «time lag», il considerevole lasso di tempo che separa le condotte illecite dall’emersione e conseguente accertamento di conseguenze lesive o pericolose per la salute dell’uomo e per l’ambiente, solleva il problema del rimprovero da muovere a chi probabilmente non conosceva e talvolta neppure poteva conoscere le conseguenze lesive o pericolose che sarebbero derivate dalla propria condotta a distanza di molti decenni.

Si tratta di un quesito che porta in nuce il pericolo di «appiattire i piani» e «guardare con gli occhi di oggi a vicende del passato». Così facendo, la «selezione cognitiva» operata dalla lente giudiziaria corre il rischio di distorcere i principi fondamentali del diritto e del processo. È questo il punto nodale del problema dell’inquinamento storico secondo Francesco Centonze e Stefano Manacorda, rispettivamente docenti di Diritto penale all’Università Cattolica e all’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, nonché curatori del libro Historical Pollution and Comparative Legal Responses to Environmental Crimes, edito da Springer e presentato in occasione del convegno promosso il 6 ottobre dall’ISPAC e dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia Penale e la Politica Criminale dell’Università Cattolica.

Sotto un primo profilo, il tema della persona umana danneggiata dal fenomeno dell’inquinamento vede in strumenti sovranazionali un significativo spazio di tutela. È il caso, ricordato da Alessandro D’Adda, ordinario di Diritto privato all’Università Cattolica, della Direttiva dell’Unione Europea sulla responsabilità ambientale del 2004, che ha riaffermato l’importanza nevralgica del risarcimento e, in particolare, la «primazia del risarcimento in natura», prevedendo un ventaglio di forme di riparazione del danno ambientale.

Per altro verso, la categoria criminologica della vittima chiama in causa il problematico ruolo del diritto penale nel fornire una risposta a disastri industriali e ambientali. Un ruolo che, come ha evidenziato Mario Romano, emerito di Diritto penale dell’Università Cattolica, contrariamente ad altri ordinamenti, è predominante in un Paese come l’Italia, dove il continuo ricorso ai processi penali svia l’attenzione da politiche, come quelle di bonifica, che dovrebbero – invece – essere prioritarie, perché in grado di perseguire effetti di lungo periodo.

Il diritto penale svolge un ruolo «preventivo», di deterrenza verso future attività industriali lesive o pericolose. Eppure, con riferimento all’inquinamento, Raffaele Piccirillo, direttore generale della Direzione generale giustizia penale del Dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero della Giustizia, ha specificato come in Italia, sino alla L. n. 68/2015 in materia di delitti ambientali, il sistema penale ambientale avesse un «effetto deterrente carente», essendo talvolta più «conveniente» commettere il reato ambientale a fronte del rischio remoto di essere raggiunti da una sanzione penale.
Ancora, l’«hindsight bias» o il «senno di poi», che caratterizza nei casi di inquinamento storico lo sguardo rivolto a vicende passate con gli occhi di oggi, rende il diritto penale, dal punto di vista politico-criminale, «anti-economico». Ad affermarlo è Michael Faure, professore di Diritto ambientale comparato e internazionale all’Università di Maastricht, secondo il quale, adottando nei casi di inquinamento storico una prospettiva ex post, e cioè «decidendo le regole del gioco dopo averlo giocato», il diritto penale si svuota della propria funzione di fornire incentivi ex ante per futuri comportamenti leciti.

Per altro verso, non si può negare che l’applicazione della sanzione penale abbia un effetto «pseudo-rassicurante» per l’opinione pubblica. Sapere che la responsabilità di fatti estremamente complessi ricade su pochi colpevoli tranquillizza la società: un meccanismo, quello del «capro espiatorio», che il diritto penale deve a tutti i costi evitare, ha affermato il consigliere della Corte di Cassazione Rocco Blaiotta.
In verità, come diceva Francesco Carrara già centocinquant’anni fa, l’ossessione tipicamente Italiana di «tutto governare col mezzo di criminali processi», ivi compreso il problema dell’inquinamento storico (potremmo dire oggi), crea significative distonie non solo sotto il profilo politico-criminale, ma soprattutto strutturale.

Tra gli effetti distorsivi di più immediata percezione campeggia l’estinzione del reato per prescrizione, la cui problematica casistica è stata illustrata dal giudice presso il Tribunale di Genova Lorenza Calcagno. Più di tutto, però, la tensione tra il protrarsi nel tempo degli effetti dell’inquinamento e la discontinuità normativa che ha caratterizzato la disciplina ambientale degli ultimi decenni ha comportato una «deformazione grottesca» del diritto penale, sino ad uno «svuotamento progressivo delle categorie», ha affermato Tullio Padovani, ordinario di Diritto penale nella Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Eppure, a fronte di tale problematico «approccio panpenalistico», Francesco D’Alessandro, ordinario di Diritto penale commerciale dell’Università Cattolica, ha messo in luce come la disciplina penale degli eco-reati in Italia presenti, rispetto al passato, numerosi vantaggi, tra cui l’estensione alla materia ambientale di strumenti tradizionali della criminalità organizzata, ad esempio, la confisca e la responsabilità da reato degli enti.

Dal rischio di «allucinazioni ermeneutiche» di cui soffre il diritto penale non pare esente nemmeno il diritto amministrativo, il quale sconta un «conflitto tra legislazione e giurisprudenza» in materia ambientale con un pericoloso «allargamento interpretativo delle fattispecie», cui va aggiunto un progressivo scadimento tecnico delle figure competenti e dei provvedimenti della pubblica amministrazione che è investita del problema dell’inquinamento, ha affermato il Consigliere di Stato Giancarlo Montedoro.

Ciononostante, ha ricordato Giandomenico Comporti, ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Siena, la risposta del diritto amministrativo a fenomeni di inquinamento storico si regge su due capisaldi: la necessità di individuare il soggetto responsabile e quella di accertare l’effettivo contributo causale all’inquinamento di un determinato sito. In tale ottica, la grande sfida del diritto amministrativo sarebbe oggi quella di «mettere al centro i fatti»: quanto più esso riuscirà a mettere al centro del procedimento e dell’accertamento fatti specifici, tanto più si riuscirà a concentrarsi su responsabilità individuali. Ha, quindi, aggiunto Marcello Cecchetti, capo ufficio legislativo presso il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, che l’obiettivo delle politiche ambientali di oggi dovrebbe essere quello di «sciogliere e separare le attività di bonifica dalla ricerca spasmodica e identificazione del responsabile, oggi inesorabilmente intrecciate».