«Prendere il Coronavirus in contropiede». È la metafora calcistica con cui Demetrio Albertini, presidente del Settore tecnico della Federazione italiana giuoco calcio (Figc) ed ex regista di Milan e nazionale, legge il momento che attraversa lo sport, soprattutto quello di base, nel nostro Paese. Albertini, nel talk online promosso dall’Università Cattolica nell’ambito dell’Open Week Master & Postlaurea (che ha fatto registrare insieme alle altre iniziative della giornata 10.990 persone raggiunte, 704 interazioni e 2.633 visualizzazioni), ha parlato, tra l’altro, del blocco subito dalle attività di formazione dei preparatori atletici promossi dalla Federazione, spiegando come nella fase della chiusura totale sia stato dato spazio alla formazione teorica, parlando di competizione, confronto, preparazione e gestione di vittorie e sconfitte. Per poi lasciare al momento della riapertura la formazione pratica sul campo.

«La speranza lo sport la insegna tantissimo» ha detto il campione. «Da giocatore ho sempre fatto il regista e ora, come presidente, devo avere come allora una visione a 360°: essere cosciente di avere qualcosa da difendere (la propria porta) ma poi trovare la tattica giusta (fiducia e speranza) per andare a fare goal, sfruttando le caratteristiche dei compagni per fare il contrattacco. Siamo molto bravi a farlo come Paese» ha suggerito, indicando come superare la fase difficile che abbiamo attraversato, cercando di essere ottimisti sul futuro prossimo del calcio italiano.

Il presidente del settore tecnico della Figc, sollecitato dalle domande relative ai master promossi dall’Università Cattolica, ha parlato anche di comunicazione sportiva. Da intendersi in primo luogo come comunicazione interna. «È fondamentale sia per chi allena che per chi gioca: non tutti sanno comunicare ma conta di più la parte psicologica che quella tecnica per gestire un gruppo di 25 giovani».

Rispetto agli anni in cui ha calcato i campi di serie A oggi «la cosa diversa sono i social. I media sono un business e ogni giocatore è un produttore di contenuti: una volta valeva solo quello che facevi in campo, oggi conta molto se sei un personaggio. Nel bene e nel male è difficile gestire questa novità. Al di là del ruolo degli sponsor, c’è la possibilità di essere molto trasversali nella comunicazione della squadra, valorizzando l’atleta e il marchio. In Italia invece non siamo all’altezza della gestione di società che sono amministrate ancora in modo monocratico, valorizzando poco l’asset manageriale e aziendale attraverso i media».

Che si tratti di sport professionistico o dilettantistico di base, «in Italia lo sport viene associato a qualcosa che non è cultura» afferma il giornalista di Sky Sport Flavio Tranquillo. Invece è proprio a partire dal territorio che si può dimostrare come lo sport possa «creare culture. Lo dimostrano il nostro lavoro da 15 anni nella formazione di allenatori e manager dei settori giovanili e nelle fondazioni che operano nei Paesi in via di sviluppo» aggiunge la professoressa Caterina Gozzoli, direttrice del master in Sport e intervento psicosociale. Quello dello sport dal basso e dei processi partecipativi, spiega la psicologa, «è un processo lento ma una sfida bellissima: fare network, cambiare culture organizzative.

Che è quanto anche la Figc cerca di fare ogni giorno, ricorda Albertini, con il settore scolastico, i campionati di bambini e ragazzi, l’attività sociale. E le 700.000 partite l’anno sul territorio.