di Stefano Pagano *
Ikonda è un remoto paesino della Tanzania, costituito da piccoli villaggi. Nel corso degli anni, a partire dal 1961, ha conosciuto un’importante espansione. La ragione di tale sviluppo è da ricercare nel Consolata Ikonda Hospital che, con i suoi oltre 300 posti letto, consta di numerosi reparti tra medicina interna, chirurgia generale, ginecologia, ortopedia, pediatria e malattie infettive
Il costo accessibile e l’offerta di un servizio di altissimo livello, hanno reso un piccolo ospedale missionario un punto di riferimento per l’intero nazione: ogni giorno numerosi autobus provenienti da ogni parte della Tanzania trasportano qui decine di nuovi pazienti.
Quello di Ikonda è un contesto caratterizzato da una profonda dicotomia: da un lato problematico per la miseria che colpisce la popolazione locale e le patologie complesse, da noi ormai rare, con cui hanno a che fare i medici locali; dall’altro all’avanguardia grazie alle risorse economiche e tecnologiche, con cui quest’ospedale guidato da padre Sandro porta avanti la missione di “Faith Hospital”.
Nonostante questa condizione di contrasto, il mese trascorso da volontario del Charity Work Program è stato fondamentale per la mia crescita non solo professionale ma anche e soprattutto umana.
Interessato all’ortopedia, ho scelto di seguire il dottor Rolando Sancassani, medico volontario italiano, e l’équipe medica locale in reparto e in sala operatoria. La possibilità di assistere a un gran numero di interventi, anche spesso complessi, in un ambiente comunque più rilassato del nostro, mi ha permesso di apprendere numerosissime nuove nozioni e procedure dal semplice lavaggio chirurgico alle varie tecniche di sutura. Inoltre grazie alla tenacia dell’infermiere Dixon ho fatto grandi progressi con il Kiswahili, la lingua ufficiale parlata in Tanzania.
Ogni giorno è stato ricco di nuove esperienze e nuovi casi: dai semplici gessi e interventi di riduzione delle fratture, alla plastica a zeta e skin-graft per le ustioni, fino alle craniotomie per i traumi cranici. L’ampia casistica e la ristrettezza dei mezzi mi ha permesso di assistere a procedure diverse e innovative, in una realtà molto diversa dalla nostra. Spesso molti pazienti arrivavano a operarsi a distanza di mesi dal trauma, non tanto per l’impossibilità di permettersi l’intervento, bensì per la pratica di fare riferimento allo sciamano del villaggio. Una figura equiparabile in un certo senso al nostro medico di base, che provvede con piccoli tagli sulla zona lesa alla guarigione. Sopportando a lungo un braccio o una gamba rotta, finalmente gli infermi si rivolgono alla struttura ospedaliera.
Quella centro-africana è una società completamente diversa dalla nostra. Nonostante la popolazione non disponga nemmeno dei beni di prima necessità (la corrente elettrica è giunta solo nel dicembre del 2014 e l’acqua corrente è un lusso di pochi) ognuno è sempre gioioso, riconoscente e pieno di vita. È il caso di Bibi, anziana donna lasciata sola della famiglia, ma adottata da Carmen, volontaria del Consolata Hospital. Con Carmen ogni sabato portavamo alla sua dignitosa capanna della verdura, della carne e un’immancabile bottiglietta di aranciata.
Il suo sorriso e quello di molti altri sofferenti e bisognosi è la più grande ricompensa che si possa ottenere. La vicinanza a chi soffre è stata, per me, un momento di grande crescita, facendomi apprezzare ancor di più il percorso di studi che ho scelto. Ho anche appreso molto dal modo di vivere più semplice, ma anche più intenso, scandito dal godersi ogni piccolo momento e ogni piccola cosa di cui si dispone.
Per questo mi sento afflitto anch’io dal “Mal d’Africa”, che ho percepito già durante il lungo viaggio di ritorno verso Dar es Salaam e quindi Roma: la nostalgia che tutt’ora mi accompagna rispetto a questo luogo e alle persone che lo vivono, che pur non avendo nulla, hanno in realtà molto più di noi.
* 23 anni, di Avellino, quinto anno di Medicina, facoltà Medicina e chirurgia, campus di Roma