di Federica Villa *
Sono partita per la Palestina con il cuore gonfio di domande. Del conflitto avevo una conoscenza solo sommaria derivata dai manuali universitari di storia e da qualche sporadica notizia raccolta qua e là, tra telegiornali e siti internet. Ma una cosa è leggere un capitolo di un libro, un’altra è trovarsi faccia a faccia con la realtà del conflitto. Una volta arrivati tutto ha preso vita, fin da quando siamo atterrati a Tel Aviv. Lungo il percorso per Betlemme abbiamo passato vari checkpoint finché non abbiamo visto il muro, prima da lontano poi sempre più da vicino, stagliarsi di fronte a noi con i suoi otto metri di altezza.
La sera stessa del nostro arrivo siamo andati a un festival della birra in un paese poco più a nord di Ramallah. Non bastasse il fatto che eravamo già abbastanza sorpresi nello scoprire che anche in un Paese a larga maggioranza musulmana esiste un festival della birra (ma molte cose in Palestina non sono come ce le si aspetterebbe), a stupirci ancora di più è stato il fatto che per percorrere un tragitto non superiore ai 40 km in linea d’aria abbiamo impiegato oltre due ore; e questo perché avevamo preso strade secondarie per evitare i posti di blocco più trafficati.
Anche in un periodo di relativa tranquillità come quello attuale, è impossibile non percepire come il conflitto permei ogni aspetto della vita quotidiana, come riesca a influenzare ogni gesto e ogni scelta anche senza manifestarsi apertamente.
Un giorno su un autobus diretto a Gerusalemme abbiamo incontrato due ragazze arabe israeliane che studiavano all’Università di Betlemme. C’erano stati degli scontri nel corso della giornata, perciò il checkpoint 300, l’unico percorribile a piedi, era stato chiuso. Noi, come queste due studentesse, siamo stati respinti all’ingresso e reindirizzati alla fermata del 231 che ci avrebbe portato a Gerusalemme. Studiavano scienze sociali e matematica, ma per farlo in arabo dovevano “espatriare” ogni giorno e raggiungere Betlemme. Ci hanno chiesto che cosa sapevamo della Palestina e mentre rispondevo, guardavo i loro volti rattristarsi nello scoprire che in Italia se ne sa poco, sia perché non si studia a scuola sia perché forse, in fondo, non interessa. «Ma voi sapete ora?» ci hanno domandato con fiducia e allora gli abbiamo risposto di sì, che ora avevamo visto e capito, ma non so fino a che punto siamo stati sinceri: come si può pretendere di capire una realtà così complessa in una, due, tre settimane? Più si conosce e meno si sa, più si scopre e più numerose sorgono le domande e sempre più difficili diventano le risposte.
In una situazione così complessa e dalle flebili prospettive di risoluzione, quello che più mi ha colpito è ciò che Zoughbi Zoughbi, il direttore e fondatore del Centro Wiam di Betlemme, definisce beautiful resistance. Anche se una fine per questo conflitto sembra quasi un miraggio, e ancora di più una fine che possa dirsi equa, questo non significa che tutte le possibilità di azione siano esaurite, che non ci sia nient’altro da fare, che non si possa intervenire per creare qualcosa di bello dal poco che si ha, qualcosa che migliori la vita e rinfranchi lo spirito, qualcosa che coltivi l’umanità e generi speranza. Per questo motivo il Centro Wiam ha costruito un parco giochi nel suo cortile, proprio a ridosso del muro.
Esempi come questo sono numerosi a Betlemme e sono grata al Charity Program e all’Associazione Pro Terra Sancta per avermi dato modo di scoprirli, conoscerli e, nel mio piccolo, farne parte. Abbiamo visitato il Caritas Baby Hospital, l’unico ospedale pediatrico della Cisgiordania, accompagnati da suor Donatella. Ci raccontava di come per trasportare un bambino in Israele per essere sottoposto a un intervento (il Caritas Baby Hospital non è un ospedale chirurgico) bisogna coordinare due ambulanze: una, palestinese, per il tragitto fino al muro e una, israeliana, dall’altra parte del muro fino all’ospedale di destinazione, mentre spesso ciò che manca è proprio il tempo. Di fronte a queste difficoltà insensate verrebbe voglia di rinunciare, di gettare la spugna, e invece il Caritas prosegue nella sua attività e lo fa con precisione, efficacia e spirito di accoglienza. Ha più di duecento dipendenti, tutti del posto, musulmani e cristiani, che lavorano fianco a fianco, e una struttura all’avanguardia progettata per essere il più funzionale possibile e al contempo garantire ai giovani pazienti un ambiente sereno e gioioso.
Abbiamo svolto attività di volontariato presso la casa di accoglienza della Società Antoniana, che ospita anziane senza famiglia e donne più giovani con problemi fisici e mentali, e presso l’asilo del campo profughi di Aida, una struttura funzionale e colorata che svolge un ruolo insostituibile per le famiglie del campo. Abbiamo frequentato l’Hogar Niño Dios, una casa di accoglienza per bambini e giovani donne affetti da gravi disabilità fisiche e mentali, e la scuola Effetà specializzata nella riabilitazione di bambini sordi o con problemi uditivi. Effetà accoglie ogni giorno circa 160 bambini, di cui uno solo, Giuliano, è cristiano. Nella scuola è garantito l’insegnamento del Corano e ogni giorno gli insegnanti e le suore che gestiscono la struttura lavorano insieme per trasmettere ai ragazzi valori comuni e offrire l’esempio di una convivenza possibile e proficua.
Si tratta di realtà, piccole e grandi, che non si arrendono alla rassegnazione che la stasi malconcia in cui versa la Palestina da anni potrebbe ispirare, ma continuano a operare nel territorio per far sì che questo paese possa essere, per i suoi quattro milioni di abitanti, una casa certo non perfetta, ma perlomeno più accogliente e vivibile.
Passando vicino al muro, non lontano dal Wiam Center, c’è un bar che ha dipinto una grande porzione del muro di bianco; serve per proiettarci sopra le partite di calcio. È un gesto semplice, forse di nessun significato ma a me sembra che lasci trasparire qualcosa d’altro, di più grande e importante: un piccolo esempio di beautiful resistance, di riuso creativo, di trasformazione possibile, di un bene che non si arrende al male.
Forse sono solo vane fantasie, ma Betlemme ha un nome che lascia ben sperare: in ebraico significa infatti “casa del pane”. E proprio in una raccolta intitolata Il canto del pane, il poeta armeno Daniel Varujan scriveva questi versi dedicati alla sua patria, ma che suonano altrettanto validi se trasportati dalla terra d’Armenia alla vicina Palestina: “Nelle plaghe dell’Oriente / sia pace sulla terra… / Non più sangue, ma sudore / irrori le vene dei campi, / e al tocco della campana di ogni paese / sia un canto di benedizione”.
In un gioco di rimandi mi vengono in mente i versi di un altro poeta, un’italiana, Mariangela Gualtieri, quando, suggerendo l’immagine di un mondo desolato, come uscito da una grande guerra che ha ridotto in briciole case e uomini, conclude: “Si faccia avanti chi sa fare il pane. / Si faccia avanti chi sa crescere il grano. / Cominciamo da qui”.
Alle mie orecchie queste poche e scarne parole suonano come un appello a fare ritorno a ciò che è alla base, a ciò che davvero conta e che, come tale, è comune a tutti gli uomini, come il pane che, sotto ogni cielo, è fonte prima di sostentamento. Mi piace dunque accostare la piccola Betlemme a questo simbolo semplice e coraggioso, a un pane che si offre a tutti ed è sempre lo stesso, da una parte come dall’altra del muro. E mi sembra allora che questo suo nome contenga quasi un augurio, che forse non avrà mai concretezza ma che almeno tiene viva la speranza.
* 24 anni, di Piacenza, studentessa del secondo anno della laurea magistrale in filologia Moderna, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Milano