di Cecilia di Ruscio *
L’autista sta per arrivare, le valigie sono chiuse, appoggiate in un angolo, la camera è ormai vuota, eppure non sono ancora pronta, ho quella strana sensazione di stare dimenticando qualcosa. La verità è che qui ci sto lasciando tanto, e non parlo di passaporto o spazzolino, parlo di quella parte di me che questo posto si è preso. E lo ha fatto con così tanta dolcezza che ora è cosi difficile salire su quell’auto diretta all’aeroporto.
Per tre settimane ho collaborato con lo staff medico del Benedict Medical Centre di Kampala, in Uganda, e, fin dal primo giorno, sono stata accolta da grandi sorrisi, quelli del personale sanitario, preparatissimo, sempre disponibile e pronto a coinvolgerci, e quelli dei pazienti, così affettuosi con noi studenti muzungu (bianchi).
In questo posto ho imparato così tanto, più di quanto cinque anni di studio possano avermi dato. Ho imparato che curare non significa esclusivamente guarire, ma prendersi cura di chi si ha di fronte, preoccuparsi non solo per la sua salute, ma anche per le sue sofferenze, significa gioire dei suoi miglioramenti ed essere presenti nei momenti di sconforto.
In questa realtà così diversa dalla nostra spesso ci si imbatte in situazioni difficili, non tutti possono permettersi delle cure e le famiglie sono costrette a grandi sacrifici. I medici del Benedict, e con loro tutto il personale, si fanno carico di queste problematiche, cercando sempre la soluzione migliore per ciascun paziente e lo fanno con un affetto che raramente avevo visto prima.
Ho imparato il valore di una parola e di un sorriso, che si può essere felici anche per delle semplici bolle di sapone, che la vita va vissuta per strada, a contatto con la gente, e basta sedersi in un bar per trovare nuovi amici, che pecore e polli sono ovunque e che anche in Africa è possibile ingrassare.
In ultimo ho capito che ci si può sentire a casa, anche a 10mila km di distanza, quando tutti ti chiamano muzungu perché in effetti sei l’unico bianco nel raggio di chilometri e il caffè è peggiore di quello del Policlinico, e per questo non posso far altro che ringraziare.
Qui sto lasciando gran parte del mio cuore, ma lo faccio sorridendo. Chi sa un giorno magari tornerò a prenderlo.
* 24 anni, sesto anno della laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma