di Isabella Secchi *

Ho avuto la possibilità di conoscere un mondo completamente differente rispetto alla mia sfera quotidiana. Un mondo dominato da una feroce povertà che ti ferisce la vista e ti dilania l’animo, se solo ti soffermi a pensare che quella persona sul ciglio della strada, scalza e affamata, potresti essere tu e che il discriminante tra le due condizioni sia un impalpabile disegno provvidenziale (per stare in tema con la missione Divine Provvidence in cui ho svolto il mio Charity Work Program in Etiopia).

Abbiamo trascorso i primi giorni placidamente nella dimora di Addis Ababa, che rappresenta in realtà una specie di oasi felice in una realtà abbastanza traumatica. Dalla finestra della camera potevamo scorgere agglomerati di abitazioni in lamiere che contrastavano con alcuni palazzi moderni in costruzione sullo sfondo. All’angoscia che ci ha assalite alla vista di alcune teste di caprone sparse qua e là sulle stradine interne si è affiancata una rilevante preoccupazione per il fatto che le impalcature del palazzo in costruzione, che ingenuamente avevamo interpretato come baluardo di benessere, in realtà erano in legno e non disponevano di alcun tipo di protezione nè di scale alcune: le donne vi si arrampicavano a mani nude brandendo secchielli di calcestruzzo in testa.

D’improvviso non fui più tanto felice di riconoscere la “modernità” che il grattacielo sembrava rappresentare. E se, da un lato, iniziavo il processo catartico che mi ha portato a questionare molti dei principi “moderni” in cui credevo, dall’altro un’ottima e bizzarra notizia ci colse di sorpresa. Il 10 settembre, giorno del nostro gaudente, e fortunatamente ricordato dalle suorine, arrivo in Ethiopia, era l’ultimo giorno dell’anno 2008. Improvvisamente eravamo ringiovanite di 7 anni in sole 8 ore di aereo; un grande affare, insomma. Tra l’altro anche le teste di caprone abbandonate sulle strade trovavano finalmente una spiegazione che si discostava da quella di strani riti macabri ingenuamente attribuita dalla mia ignoranza. Insomma l’ironia del destino ha fatto si che l’ultimo giorno dell’anno rappresentasse l’inzio di una meravigliosa avventura in grado di farmi cambiare prospettiva sul mondo.

Eravamo partite convinte di poter “dare”, offrire qualcosa alle persone, siamo tornate, invece, loro debitrici non di beni materiali, ma di emozioni mai provate prima, arricchite dalla conoscenza di gente stupenda e dalla consapevolezza del valore delle più semplici cose, spesso dato per scontato.

Il trasferimento dalla capitale a Debre Birhan è stato ancora più simile a un viaggio della speranza rispetto all’ottenimento del visto: 130 km di strada pseudo asfaltata e di mandrie di animali che si paravano sulla via e bloccavano placidamente lo scorrimento stradale, reso difficoltoso dalla stagione delle piogge. Chilometri e chiilometri di altopiani etiopi: un paesaggio da togliere il fiato, quasi quanto le esalazioni di nafta e i racconti drammatici di suor Sandra sulla disfunzionalità delle abitazioni tipo etiopi (i tugul): capanne di sterco con tetto di paglia dalla forma circolare in cui convivono persone e bestie, separate da un calderone d’acqua al centro che viene lasciato perenemmente bollire per scaldare l’ambiente nel freddo delle notti a 3.000 metri.

Una delle prime lezioni sullo stile di vita etiope è stata quella relativa al loro sistema educativo: dopo i tre anni d’asilo, i bimbetti iniziano il loro percorso scolastico che li porta dalla prima all’ottava (la nostra terza media). Dopo due anni di liceo, i ragazzi devono affrontare un temuissimo regional test: a seconda dei punteggi registrati nel test il governo sceglierà cosa farti studiare e il luogo in cui farti studiare. Se il tuo punteggio è scarso, il governo ti obbligherà a intraprendere un percorso meno “cerebrale” e più pratico per ricoprire mansioni come il falegname o l’idraulico.

Nonostante si possa pensare che quello sopra descritto sia il worst case scenario, i due ragazzi con cui abbiamo legato moltissimo durante la permanenza sono segnati da destino ancora più beffardo. Il più piccolo, Dyian (15 anni), vuole fare il pittore, lavoro già difficile di per sè, immaginate intraprendere una carriera del genere in Etiopia. Anzi non provate a immaginarla nemmeno perchè proprio non contemplata. L’altro ragazzo, Leul (17 anni) - il cui nome in amarico significa principe, un nome che rispecchia le sue qualità caratteriali - vuole diventare calciatore in una città in cui lo stadio, dal suolo dissestato, viene usato indistintamente come campo da calcio e campo per pascolare il bestiame.

Leul e Diyan ci hanno cambiate, mi hanno in qualche modo segnato dentro. Abbiamo trascorso tre settimane insieme a loro, apprezzando i loro numerosi pregi, tra cui una maturità non comune in un campione estratto a caso di teenager italiani, un senso di responsabilità e un amore fraterno che, essendo figlia unica, non avevo mai vissuto così da vicino. Dyian con il suo carattere dolce, sensibile e un po’ stravagante ricorda un po’ gli artisti romantici e naïf che hanno un modo tutto loro di guardare la realtà. Leul, stoico e austero, è caratterizzato da un’aurea di cabarbietà, competitività e voglia di arrivare propria di chi ha assunto la consapevolezza che è necessario eccellere.

Sono loro la mia famiglia etiope. Una famiglia che mi ha accolta, viziata e anche farcita di pasta, nonostante i blandi tentativi di ridurre la dimensione delle porzioni (ndr se ottenete un invito a pranzo/ cena a casa di un etiope, non provate a rifiutare il cibo: è estremamente maleducato non solo che l’ospite rifiuti o lasci nel piatto resti anche minimali, ma anche che il padrone di casa non continui a riempire I piatti dell’ospite). Leul e Diyan emanano un’ostinata voglia di sorridere in circostanze in cui la maggior parte delle persone si sarebbe arresa. Per questo mi sono innamorata di loro. Un amore fraterno e profondo, quasi un segno di riconoscenza per avermi fatto scoprire la gioia di ricevere un sorriso al mattino.

Per quanto riguarda le attività svolte durante la nostra permanenza a Debre Birhan, ci siamo occupate dapprima della schedatura di alcuni bambini che vivono grazie all’aiuto di sponsor (imbattendoci spesso in tragiche storie di fronte alle quali è quasi impossibile restare indifferenti) mentre in seguito ci è stato chiesto se fossimo disposte a tenere lezioni di inglese nelle due ottave della scuola.

Da quando sono rientrata dall’Etiopia ho una consapevolezza diversa della mia realtà. È come se, tutto d’un tratto, vedessi le cose in modo diverso. Prima di lamentarmi del fatto di non sapere cosa voglia dalla vita, rifletto. Rifletto su Leul e Diyan che hanno un’idea chiarissima, ma irrealizzabile. Prima di esaltarmi per i saldi, rifletto. Rifletto su Eszequenet, la mia mamma etiope (mamma di Leul e Diyan) e all’espressione che mi ha regalato quando le abbiamo portato uno zaino pieno di vestiti (i nostri, usati).

Prima di lamentarmi del fatto che “oggi non ho voglia di studiare”, rifletto. Rifletto sull’impegno delle suorine della missione. Rifletto su suor Sandra che alla veneranda età di quasi ottant’anni si sveglia tutte le mattine alle 4.45, girando per le missioni a circa 3.000 metri di quota, e vive da oltre quanrant’anni in Etiopia, anche se era partita per tener compagnia un paio di mesi a una sua amica e non ha più fatto ritorno.

Prima di questa esperienza avevo una risposta chiara alla fatidica domanda dei parenti il giorno di Natale: «Cosa vuoi fare da grande?». E io dicevo: «Mi piacerebbe lavorare in una società di consulenza. Non una qualunque. Una delle big four». Già mi vedevo proiettata verso la carriera, troppo impegnata per pensare di avere una famiglia. Penso che mai nessuna perdita di certezze possa essere più dolce e traumatica allo stesso tempo, di quella vissuta in Etiopia. Ho riscoperto la meravigliosa semplicità delle piccole cose, le cose più umane, più umili. Adesso non so “da grande” cosa voglia fare, ma non me ne angoscio. Non avrei mai pensato che la parte migliore di me si potesse trovare così lontano da dove l’avevo sempre cercata. O forse il problema è che non l’avevo mai cercata prima. Ora che so dove guardare, vedo il mondo da una nuova prospettiva.

* 24 anni, di Milano, studentessa del corso di laurea magistrale in Mercati e strategie d’impresa, facoltà di Economia, campus di Milano