Accostarsi all’esperienza dell’uomo greco, al cittadino della polis ateniese del V secolo a.C., attraverso vicende tragiche come quelle tratteggiate da Sofocle, costringe il giurista contemporaneo a misurarsi con l’archetipo della giustizia e i suoi complessi, liquidi e frammentati sviluppi in un’età postmoderna in cui «ancora non è stata scritta la tavola dei logaritmi per darci la formula della giustizia».

Giovanni Canzio, già Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, cita il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America B.N. Cardozo a chiusura del nono ciclo seminariale di “Giustizia e Letteratura”, organizzato dall’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale (ASGP) e dedicato alla giustizia nella letteratura greca antica.

Al centro della riflessione, l’Antigone di Sofocle, emblema - secondo Anna Maria Cascetta, docente di Storia del teatro all’Università Cattolica - del conflitto tra cultura democratica e cultura aristocratica.

Un dramma, quello di Antigone, che obbliga tanto l’eroina sofoclea quanto l’uomo contemporaneo a misurarsi con il conflitto tra leggi divine (l’onore prestato agli dei attraverso la degna sepoltura del fratello Polinice) e leggi patrie (lo spregio del cadavere di Polinice ordinato dal tiranno Creonte): in altre parole tra la norma che l’uomo sente dentro di sé e la norma storicamente dettata. Antigone e Creonte incarnano, secondo Maria Pia Pattoni, docente di Filologia classica alla sede di Brescia dell’Università Cattolica, due concezioni antitetiche della giustizia: l'una basata sulla physis, il “giusto” secondo natura, l’altra sulla legge positiva.

Tale binomio conflittuale, così come quello tra la pietas di Antigone per il fratello e la hybris di Creonte, rappresenta, in verità, una delle tante dicotomie risolte nel pensiero di Aristotele – giustizia/legge, corpo/anima, verità/verosimiglianza –, come spiega Elisabetta Matelli, docente di Filologia classica e tardoantica all’Università Cattolica, osservando come già nella Grecia del V sec. a.C., all’emergere della retorica classica, vi fosse in ambito giudiziario una consapevole distinzione tra giustizia naturale e norma convenzionale. Si tratta, a ben vedere, di dicotomie o binomi che vengono talvolta persino “sovvertiti”, come accade per l’equilibrio cosmico tra la vita (di Antigone, rinchiusa in una buia caverna sotterranea) e la morte (di Polinice, il cui cadavere viene abbandonato a brandelli senza sepoltura sulla terra, arso dal sole): un equilibrio rovesciato, e causato, nelle parole dell’indovino Tiresia, dalla hybris del tiranno Creonte.

Ed è, allora, per la nozione di hybris, ma soprattutto per il rapporto «mimetico» tra diritto e violenza, che passa il concetto di giustizia tanto nella Grecia antica quanto in quella moderna, nelle “Antigoni del ‘900”, osserva Maria Paola Mittica, docente di Filosofia del diritto all’Università di Urbino Carlo Bo. Ponte tra antichità e modernità, quello di giustizia è, dunque, un concetto non solo fondativo e identitario nella tradizione greca antica, ma anche che ha accompagnato i drammi del ‘900 e il declino della Grecia contemporanea, assumendo vesti cangianti nei sapienti versi di poeti «metafisici o militanti» quali Giorgio Seferis, Odisseas Elitis, Ghiannis Ritsos, Titos Patrikios – evocati da Filippomaria Pontani, docente di Filologia classica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia –, capaci di declinare topoi quali giustizia sociale e penale, giustizia della fede e della ragione umana attraverso gli intrecci di destini che la Dike, con il suo mutevole volto, ha riservato di volta in volta a stirpi e a singoli uomini.

L’accostamento tra archetipo della giustizia nella Grecia classica e modernità conduce a riflessioni “di sistema” sul ruolo del legislatore e del giudice penale nell’Atene di allora, come nell’epoca contemporanea.

Da un lato, tratteggiando taluni emblematici profili dell’Ifigenia in Tauride di J.W. Goethe, Gabrio Forti, docente di Diritto penale e Criminologia e preside della facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica, propone una riflessione critica sull’“eccedenza” sanzionatoria dell’attuale legislazione penale italiana, quale sintomo di un difetto di comprensione (prima ancora che di controllo) dei fenomeni sociali oggetto della regolazione, correlata al progressivo svuotamento assiologico del quadro normativo, capace di condurre persino a forme di “nichilismo giuridico”. Dall’altro lato, Carlo Pelloso, docente di Diritto romano e Diritti dell’antichità all’Università di Verona analizza la figura del giudice nell’Atene del IV-V sec. a.C. affrontando il complesso problema (di teoria generale del diritto) del rapporto tra legge & potere giudicante, ossia del nomos che, sublimando la violenza, si pone come limite ai poteri dell’autorità giudicante.

Un tema che ben si collega alle riflessioni di Salvatore Natoli, emerito di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, sulla funzione del giudizio (nella tragedia greca) di «chiudere una partita e aprire un’altra scena», e cioè di interrompere un delitto più che di punire un colpevole: in altre parole di disinnescare l’azione criminale. E se, come afferma Natoli, quella della tragedia greca è una giustizia prevalentemente «antropocentrica» – dove l’uomo, schiacciato da potenze contrapposte deve trovare da solo una via d’uscita – la giustizia nella Bibbia è, invece, di matrice squisitamente «teocentrica» – dove è Dio a liberare l’uomo dall’Egitto –. Pur nelle rispettive differenze, l’accostamento tra l’uomo greco e l’uomo biblico ci rivela, però, «la pasta comune», l’elemento universale che li accomuna: la circolarità della vita e della morte, che, insita nella natura, è l’«universale premessa biologica di ogni religione e ogni filosofia».