di Beatrice Distort *
Ho avuto un semplice assaggio di quell'Africa di Kapuscinski: “un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa”.
Appena atterrata a Dakar la tensione che mi aveva fatta sprofondare in uno stato di nervosa attesa, dal saluto ai miei genitori fino all'atterraggio, mi ha di colpo abbandonata. La vista della città dal finestrino dell'aereo mi è bastata per capire che finalmente sono dove devo essere. Non si tratta di quel brivido che ti scuote quando stai per iniziare una nuova esperienza, ma di una ferma e stranamente limpida convinzione di essere nel posto giusto. Ciò che più ricordo del mio primo giorno in Africa è stata proprio quell’insolita calma.
Non abbiamo fatto in tempo a uscire dall'aeroporto che un signore senegalese ci ha offerto il suo aiuto per contattare chi dell'ong dovesse venirci a prendere. Noi, con la diffidenza tipica forse di un italiano atterrato per la prima volta in Africa, abbiamo trovato gentilmente il modo di tagliare corto. Qui si dice che “il tempo è dentro di te”, non sono la società o le contingenze del momento a scandire le fasi di una vita, ma sei tu a darti il tuo tempo. Che sia quello che impieghi per arrivare a un appuntamento o quello che ti sei preso per terminare gli studi e avere una famiglia.
Certe volte ammetto di aver pensato che questo detto fosse solo una scusa, funzionale a giustificare i ritardi dovuti alle lunghe attese nel traffico di Dakar; nonostante ciò, mi ha fatta anche riflettere su come in Italia il tempo sia “fuori da noi”. Tiro giù il finestrino, in taxi fa caldo, non è tanto la temperatura quanto l'umidità l'unico aspetto che non mi mancherà di questo Paese.
Mi guardo intorno e non faccio che ripetermi in mente: sembra una città appena bombardata. Di quella frase avrei riso ripensandoci, come sorrido ora che ho capito che quelle macerie a terra che associavo a una comunità che cade a pezzi, sono invece i mattoni di una città in costruzione. Un Senegal “emergent”, ora capisco cosa vuole dire il presidente Macky Sall che sorride sui manifesti in città.
I senegalesi ci credono davvero, si impegnano tutti per questo Senegal emergente, insegnando ai bambini che abitano in un Paese in via di sviluppo e che spetta a loro cambiare le cose e renderlo simile all'Italia o alla Francia. Un Paese sviluppato insomma, dove tutti sono dei “buoni cittadini”, dove i diritti civili e politici sono rispettati, le imprese crescono, le malattie si curano e il lavoro si trova. Siete proprio sicuri che da noi sia così? E chi decide che in un Paese cosiddetto “sviluppato” si sia più felici?
In Italia i bambini non sorridono come i vostri, non si prendono cura in quella maniera così premurosa dei fratelli minori. Noi non insegnamo negli oratori cosa significhi “essere un buon cittadino”, in Italia i bambini non vengono a stringerti la mano per dirti “buongiorno” e non conoscono a memoria i propri diritti come i vostri figli. Ma questo è un mio pensiero e con voi non l'ho condiviso, perché avete una vostra visione dello sviluppo, ragionate su una crescita fatta di condivisione e di “essere una famiglia”, proprio come mi rispondevate ogni volta che vi ringraziavo quasi a dire “siamo insieme a fare qualunque cosa”.
Il tempo di svuotare le valige, nello spazioso appartamento di un palazzo vicino alla rond point 26, che subito sono in strada alla mia prima contrattazione con un taxista di Dakar, probabilmente un ex talibé come suggerisce l'immagine del Marabout attaccata al finestrino.
“Salam aleikum, ca va? On doit aller jusqu'à Nord Foire où il y a Ker Don Bosco. C'est combien?”.
Ha ragione chi dice che Dakar è come un grande teatro, dove le contrattazioni messe in scena ogni giorno si svolgono più o meno in questo modo: una volta chiesto il costo per quel passaggio tendenzialmente ti verrà dato un prezzo che è almeno tre volte il valore effettivo del tragitto, al che è quasi d'obbligo rispondere con una smorfia al confine tra lo stupore e il disprezzo accompagnata da una controproposta pari ad 1/3 o 1/4 di quanto ti è stato detto. A quel punto è il taxista che decide di indignarsi e lì, in quell'esatto momento, fingi di andartene ringraziandolo per essersi fermato.
Nel 95% dei casi un istante dopo il ragazzo suonerà il clacson per dirti che “ci sta” e tu soddisfatta potrai salire sul taxi e pagare i tuoi 1000 franchi. Direzione Casa Don Bosco, o Ker Don Bosco in wolof, dove trascorreremo gran parte del tempo lavorando la mattina in ufficio, svolgendo attività di ricerca per l'Ong, e il pomeriggio fuori in cortile con i bambini dell'oratorio.
Una delle opportunità di questi due mesi è stata poter conoscere meglio il mondo delle organizzazioni non governative, quindi essere formati su come si scriva un progetto di cooperazione internazionale e come si organizzi una settimana di training in risorse umane, e poter al contempo trascorrere venti giorni a contatto con la comunità senegalese grazie all’oratorio estivo.
Il primo giorno di Boscovacances rimarrà impresso nei miei ricordi, in queste righe scritte a caldo: “Oggi sono diventata “tatà”, significa che sono responsabile di tutti i bambini iscritti a Bosco Vacances, l'oratorio organizzato da Ker Don Bosco a Dakar. L'inizio non è stato semplice. Mi sono sentita un pesce fuor d'acqua, quasi stordita da una fitta rete di animatori, intimorita da quella corrente di bambini così partecipativi. Poi qualcosa è cambiato, poi è arrivata Marie Louise, dolcissima bambina dal sorriso contagioso. Una di quelle bimbe chiacchierone e distratte che fanno di tutto per catturare l'attenzione dei maestri il primo giorno di scuola!.È stata lei a rompere il ghiaccio, che anzi si è sciolto nel suo sorriso!
Mi ha riempita di domande la metà delle quali non ho neppure capito, mi ha dettato le parole della canzoncina che la direttrice ci ha fatti intonare, ha riso con me perché non riuscivo a imitare neanche il suono di una parola in wolof! Marie Louise è la prima bimba africana che mi parla qui a Dakar e io sono la sua “tatà”!..
Dopo essere stati divisi in gruppi, pardon “famiglie”, mi sono trovata di fronte a 9 di loro: 3 bambini e 6 bambine di 9 anni ciascuno. L'obiettivo della prima giornata è conoscersi e far scattare le prime amicizie e complicità tra i piccoli.
Tra loro un talibé. Mamadou è scalzo, vestiti e capelli pieni di sabbia, ha un viso bellissimo e una timidezza che nasconde tutti i colori della sua personalità. Qualche sfumatura però se l'è fatta scappare. Il modo in cui ha prestato attenzione alle parole di noi animatori, nonostante parlassimo in francese e lui capisse solo il wolof, l'intesa che è riuscito a creare con gli altri due bambini del gruppo, lo spirito di iniziativa nell'aiutarci a spostare tutte le panche di legno da una parte all'altra della sala, quel modo contenuto di esultare una volta vinto il gioco improvvisato al momento, ma soprattutto la risata sincera di un bambino che si è trovato per caso a Ker Don Bosco e ha capito di essere nel posto giusto al momento giusto. Speriamo venga anche domani. Speriamo si ricordi che l'oratorio è un posto sicuro dove giocare ed imparare, dove i bimbi sono tutti uguali.. con le scarpe ai piedi o meno”.
I venti giorni di oratorio sono quasi volati, velocissimo è stato l'intervallo di tempo dal momento in cui i bambini ci osservavano incuriositi e distanti a quello in cui ti correvano incontro per stringerti in un abbraccio sincero.
Dakar è una città che offre ambienti molto diversi tra loro, si passa dalla tranquillità del nostro quartiere alla frenesia del labirintico mercato Sandaga, dall'essere tra i pochi tobab (bianchi) che camminano per le strade piene di sabbia al sentirsi quasi in Corso Como a Milano negli eleganti locali della Corniche.
Un pezzo del mio cuore resta in quei semplici ristoranti che definirei a metà strada tra i nostri e i loro, come la Cabane du pecheurs e du surfeurs, o ancora a Point des Almadies dove ho visto per la prima volta un tramonto dalla luce fredda ma non per questo meno d'impatto di quelli infuocati sulle coste italiane.
I senegalesi sono simili agli italiani, aperti e disponibili, divertenti e chiacchieroni, solo hanno storie molto diverse dalle nostre. Una di queste ci è stata raccontata sull'isola di St. Louis, ex capitale del Senegal, da un baifal di nome Mor.
Mor nel 2002 tenta la traversata verso le Isole Canarie, il suo mezzo una semplice piroga di legno dove siedono lui e circa altre 80 persone disposte a pagare 500mila Fcfa per raggiungere clandestinamente un futuro migliore. Hanno stimato di rimanere in mare per una settimana circa, pochi giorni prima un’altra imbarcazione aveva tentato il viaggio ma era stata sorpresa da una mareggiata che non ha lasciato neanche un superstite.
Siamo all'ombra di un albero, a pochi metri qualcuno allestisce un palco per il grande concerto che si terrà quella sera, il via vai continuo di persone e carrapide non interrompe il racconto di un uomo che non vuole muovere in noi compassione, cercando di trattenere quel filo nero di lacrima che veloce segna il viso. Nel suo racconto sento l'intenzione di far capire proprio a noi, proprio lì, perché loro partono. Nessuno vorrebbe lasciare l’isola, ma il cibo manca e il timore di non poter dare un futuro ai propri figli dà loro la forza, o forse follia, di sopportare quei viaggi.
Mor ci racconta di come progressivamente le provviste siano venute meno, di quei sette giorni che sono diventati molti di più, dei compagni che iniziavano a morire e delle preghiere per accompagnare i corpi in mare. Proprio quando è giunto al punto di “aspettare l'ultima onda”, ecco l'arrivo della Croce Rossa spagnola.
È stato quasi surreale ascoltare quelle parole, una di quelle storie di migranti di cui i giornali parlano solo quando è l'ennesima piroga a sprofondare a largo delle nostre coste, ed è stato ancora più inaccettabile scoprire che lui e gli altri superstiti siano stati tenuti in prigione per una settimana prima di essere rimandati in Senegal, in manette, sul primo aereo disponibile.
Cosa fai di fronte a un uomo che ha vissuto un'esperienza simile, impiegando tutti i risparmi per essere considerato un criminale da chi non ha idea di cosa abbia sopportato, e non solo su quella barca ma per tutta una vita a St. Louis dove le navi russe, giapponesi e coreane pescano a largo il suo pesce, l'unica fonte di guadagno che poteva sperare di avere? Ti senti impotente, ascolti delle parole che non sei nemmeno sicura di capire, non perché siano in francese bensì perché ti dicono cose che non conosci e che è solo grazie alle tue origini se non usciranno mai dalla tua di bocca.
Una volta condivisa la sua storia, Mor decide di raccontarci anche quella dell'isola spiegandoci il valore di ogni singolo luogo, dalla prima chiesa costruita in Africa Occidentale al Tribunale per i musulmani. In cambio? Dopo una nostra timida offerta di qualche Fcfa, ci chiede quanto basta per comprare un solo sacco di riso. Due mesi a Dakar sono stati come un lampo, una luce che per quella frazione di secondo ti permette di vedere, chiare, molte cose.
Ho ricevuto dall’Africa molto più di quanto mi sia sforzata di darle. È stato come guardare dallo spioncino un mondo di cui, se decidessi di tenere questa esperienza solo come un ricordo, non potrei mai fare parte. Qualcuno un giorno mi ha detto che ci sono due modi per vivere un’opportunità così: portare il proprio mondo in un Paese, o lasciare che quel Paese diventi il tuo mondo. Significa adattarsi a un contesto, rispettarne i tempi, lasciare che la quotidianità di un senegalese diventi la tua, osservare, ascoltare e non avere fretta di capire tutto e subito. Perché in Africa “nessuno ti giudica”, ogni aiuto “c'est gratuit” e insieme “si è una famiglia”.
* 24 anni, di Bussero (MI), studentessa del quinto anno di Giurisprudenza, facoltà di Giurisprudenza, campus di Milano