“Infra domum manere optimum est donec epidymia transeat”. Sono passati tanti anni da quando furono scritte queste parole, ma la sostanza non cambia: “È meglio restare a casa finché l’epidemia non sarà passata”.

È il 1348, l’anno della peste, ricordato negli archivi storici come quello con la massima esplosione di morti e contagi. Il canonico Ludovicus Sanctus de Beeringhen scrive una lettera ad alcuni conoscenti e amici alla corte di Avignone dove elenca una serie di suggerimenti, alcuni contingenti alla sua epoca come “non prendere freddo” o “evitare le basse temperature”, altri più restrittivi, tra cui il consiglio di restare a casa perché è “il modo migliore per contenere il contagio”.

Nulla di particolarmente nuovo se confrontato a quanto ci accade in questi giorni, nonostante i secoli di distanza e il grande balzo tecnologico che ci distingue da quei tempi. A imbattersi in questo documento del XIV secolo è Riccardo Valente, laureato in Lettere e filosofia all’Università Cattolica con la professoressa Mirella Ferrari, e attualmente collaboratore del Dipartimento di Storia, Archeologia e Storia dell’arte. Una scoperta curiosa e del tutto casuale. «Eravamo ancora nella fase iniziale dell’emergenza sanitaria e volevo saperne di più sul tema. Così ho colto l’occasione per andare a leggere qualcosa relativo al passato, vista la mia formazione e gli studi svolti in Cattolica. Quindi sono andato a sfogliare alcuni documenti sulla peste nera, l’epidemia più nota a livello europeo».

Il nome dell’autore del documento, Ludovicus Sanctus de Beeringhen, è attestato in diverse forme (basta anche consultare la voce di wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Lodewijk_Heyligen). Mentre la lettera si trova nell’edizione A. Welkenhuysen, La Peste en Avignon (1348) Décrite par un Témoin Oculaire, Louis Sanctus de Béringen. (Edition Critique, Traduction, Eléments de Commentaire), in Pascua mediaevalia: studies voor Prof. Dr. J.M. De Smet / ed. R.Lievens - E.van Mingroot - W.Verbeke, Leuven 1983, 452-92, presente nella biblioteca dell’Ateneo. «Ciò che mi è rimasto particolarmente impresso di questa lettera è stata la frase in latino che ricalca perfettamente i consigli che ci vengono dati ogni giorno, anche attraverso gli slogan come #iorestoacasa – racconta Valente –. Di fatto è proprio una trasposizione latina di quanto ci viene detto oggi o meglio siamo noi che ci siamo trovati a dare gli stessi identici consigli 650 anni dopo circa».

Di qui l’idea di riprendere il testo in latino per realizzare una “parodia” intelligente delle card social realizzate dalla Regione Lombardia per l’emergenza sanitaria in atto. Così Riccardo insieme con un gruppo di amici, tra cui Chiara Bozzi, Alessandro Bona, Ricky Radaelli, tutti laureati in Cattolica, e Matteo Tortosa, grafico, ha ripensato i pannelli e i cartelli che tappezzano Milano. «Il nostro vuole essere soprattutto una sorta di gioco anacronistico, una trasposizione dei modi di comunicazione odierni al passato».

Ma c’è anche dell’altro. «La molla è stata dare il nostro contributo in qualità di umanisti cercando di far riflettere le persone sul fatto che certe indicazioni, certe situazioni, che magari per la nostra mentalità sono vissute come se fossero limitazioni o quasi un assalto alla propria libertà di azione in realtà, sono molto dettate dal buon senso – osserva Valente –. Infatti, se si studiano questi fenomeni storici ci si rende conto che ritornano con modalità se non identiche almeno molto simili». D’altronde da allora rispetto a oggi nulla è cambiato: le indecisioni della politica, i contraccolpi economici, i problemi di ordine pubblico. «Le cronache storiche degli ultimi anni relative alle epidemie raccontano quello che stiamo vivendo in prima persona e che oggettivamente abbiamo dimenticato. E questo la storia ce lo racconta bene». Come dire: historia magistra vitae.