Anche se l’immagine internazionale proposta dai media è negativa, esiste un “nuovo” Afghanistan. A partire dal ruolo delle donne e di una nuova generazione di millenials. A raccontare agli studenti questo volto nascosto del Paese asiatico è l’ambasciatore afghano in Italia dal 2016 Waheed Omer, che è salito in cattedra nell’aula Pio XI di largo Gemelli lunedì 9 aprile nell’ambito dell’incontro “Afghanistan. Domestic Political Dynamics, Regional Scenarios, International Support”. 

Il seminario, coordinato dal preside della facoltà di Scienze politiche e sociali Guido Merzoni, e introdotto dal direttore del Centro di ricerche sul Sistema Sud e il Mediterraneo allargato Riccardo Redaelli, ha preso le mosse da una breve cronistoria delle relazioni diplomatiche tra Italia e Afghanistan, con la costruzione nel 1923, durante il regno del re Amānullāh Khān, della prima ambasciata afghana a Roma. «L’Italia, per il popolo afghano, è un rifugio, è uno dei pochi stati che ha sempre sostenuto i nostri interessi. Inoltre è a capo del più grande programma di aiuti nel Paese» dichiara l’ambasciatore.

Il focus si è poi spostato sulla situazione afghana durante la guerra fredda: «L’invasione sovietica del 1979 fu vista dagli americani come un’opportunità per vendicare la disfatta del Vietnam. Gli Stati Uniti finanziarono e sostennero i mujaheddin stanziati in Pakistan, loro alleato». Durante i dieci anni successivi, molti jihadisti di vari Paesi come Somalia, Sudan, Algeria, Marocco, Tunisia videro in questo scenario un’opportunità per combattere una guerra santa. Con il ritiro dei sovietici nel 1989, «la Comunità Internazionale ha abbandonato il Paese a se stesso e agli jihadisti – continua Omer – fino al totale controllo del territorio da parte dei Talebani nel 1996. L’Urss era scomparsa e l’Afghanistan dimenticato».  

Fino al 2001, dopo l’attentato dell’11 settembre. L’operazione “Enduring Freedom”, guidata dagli Stati Uniti, fece tornare il Paese sotto i riflettori. La situazione era drastica, gli anni di governo dei Talebani avevano cancellato qualsiasi traccia di modernità e progresso dalla società. «Alle donne non era permesso uscire di casa da sole. Non esistevano scuole femminili, non era permesso loro lavorare. Il loro ruolo nella società era inesistente, loro non esistevano più. Lo sport, la musica, tutto ciò che poteva essere assimilabile all’Occidente era bandito. Nonostante tutto però – spiega con orgoglio l’ambasciatore – la nazione non si è mai sentita debole, ha sempre avuto la forza di rialzarsi».

Pur essendo uno Stato ancora diviso da una guerra interna, che solo nel 2017 ha causato diecimila morti di cui la metà tra i civili, la realtà non è solo quella estremamente negativa dai media internazionali. «Siamo passati da zero a quattro milioni di ragazze nelle scuole. Da nessuna assistenza sanitaria alla popolazione all’attuale 67% di afghani con cure mediche a meno di un chilometro da casa. La mortalità infantile è calata, da 257 su mille morti prima dei cinque anni siamo scesi a cinquanta. Il cambiamento si vede anche nelle istituzioni, con il 28% dei parlamentari donne».

Oggi, esiste una nuova generazione di giovani che sta emergendo in Afghanistan, dopo il vuoto provocato dal conflitto; giovani che sanno cos’è la libertà e che vogliono vivere in pace col mondo. 

L’ambasciatore conclude il suo intervento con un monito: molti altri Paesi del mondo sono stati lasciati nella stessa situazione dell’Afghanistan dalla sconsideratezza della Comunità internazionale: «Per la maggior parte del tempo ha sostenuto gruppi terroristici, ma nessuna responsabilità morale è mai stata assunta. Siatene consapevoli».