«Quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile, perché l’universo non ne sa nulla»

(B. Pascal, Pensieri)

di don Roberto Maier *

Qualcuno ha azzardato un’idea: che il traboccare delle immagini non renda affatto la nostra un’epoca dell’immagine. La moltiplicazione incontrollata le rende tutte inevitabilmente irrilevanti e transitorie, perenni nella trame della rete ma paradossalmente volatili nell’esperienza e nella memoria. Non importa quale sia la sua forza: ogni scena verrà rimpiazzata dalla successiva, perché non è la capacità persuasiva dell’immagine, ma la nostra disponibilità a custodirla a fare la differenza.

È compito nostro, dunque, che non si perda l’immagine di un uomo solo, vestito di bianco, che si incammina in un’immensa piazza vuota. È nostro compito custodirla nel cuore, dove si è dolorosamente depositata, e raccontarla ai figli che verranno. Non è un’immagine facile, come non lo sono questi giorni, ma ci rappresenta con una forza che, forse, non ci saremmo aspettati. Sono io quell’uomo solo e la mia casa — troppo grande e troppo vuota — è quella piazza. È il bambino che ha lasciato il parco, per una cameretta di cui non sa più le proporzioni. È l’anziano costretto lontano dai figli, in un appartamento in cui riecheggiano solo i suoi passi. È l’amico disteso nel letto sotto i neon di un’ospedale, in una stanza in cui si devono nascondere i volti dietro a una maschera.

Siamo tutti noi, in una sproporzione che — come l’uomo vestito di bianco — attraversiamo con passo incerto e con il fiato che si spezza. Ma è solo un attimo: la voce già prende forza, l’affanno si scioglie in parola e il miracolo di esser uomini ancora una volta si avvera. Non dicono di lui, le sue parole, né della sua solitudine, né della sua paura. Ma di come ciascuno sia importante e necessario, di compagni di viaggio che hanno donato la vita, del servizio silenzioso e di quel misterioso bene che è la preghiera. Parlano degli errori fatti, certo, ma anche di come, caduto il trucco del nostro ego, si scopra il nudo splendore dell’appartenenza comune. E di tutto il bene che stiamo facendo, nonostante tutto, l’uno per l’altro.

«Non è il tempo del tuo giudizio — ha l’ardire di ricordare a Dio — ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere». Possiamo andare avanti solo insieme, dice ancora di fronte all’immensa piazza vuota. E lui ha già iniziato, portando in se stesso la dignità di cui siamo tutti fatti: noi tutti in quell’unico uomo, in piedi, di fronte alla dismisura. Già tutti una cosa sola: padri, madri, figli, medici e pazienti, nella nostra insopprimibile capacità di alzarci e ricominciare ad esser uomini. Perché, sebbene Dio non possa chiederci di sgridare la tempesta, egli sa di poterci dire «non abbiate paura». Perché sa di non lasciarci soli.

* docente di Teologia, campus di Piacenza dell'Università Cattolica del Sacro Cuore