di Natalia Gregori *
Non avevo in mente una meta precisa per il mio Charity Work Program. Mi bastava partire. Perché? Penso che ogni tanto faccia bene mettere il naso fuori dalla quotidianità, dalle mura di università, facoltà, ospedale, dove passiamo la maggior parte delle nostre giornate, spesso portandoci a ingigantire situazioni o problemi che finiscono per farci perdere di vista le cose importanti.
Una volta saputo che sarei partita per l’Uganda, per fare attività di volontariato medico presso il Benedict Medical Center a Kampala, la capitale, ero carica di curiosità e anche con un pizzico di timore: come sarebbe stato affiancare medici e infermieri ugandesi? E approcciare pazienti di una cultura cosi diversa dalla mia? Li avrei capiti e mi sarei fatta capire?
Ma soprattutto ero impaziente di vedere e vivere in prima persona una realtà, quella ospedaliera a cui sì, sono abituata qui a Roma, ma che non avevo la più pallida idea di come potesse essere là, nella Perla d’Africa. Posso dire che fin da subito tutto lo staff, medici, infermieri, ostetriche, tecnici di laboratorio e radiologi, è stato a completa disposizione, coinvolgendomi nelle visite ai pazienti, chiarendo i miei dubbi, aiutandomi a capire quando ero in difficoltà (l’inglese con accento ugandese non è per niente facile da comprendere!). Insomma mi hanno fatto sentire a tutti gli effetti parte di loro.
Come spesso accade per chi torna da Paesi come questo, è davvero difficile raccontare e trasmettere tutte le impressioni, emozioni e pensieri che si raccolgono mentre si è “laggiù”, a chi rimane “lassù” a casa in Italia e mi sembra quasi scontato parlare di mal d’Africa.
Dal mio piccolo punto di vista però, tra tutto quello che mi ha colpito di più, è stato sicuramente il contatto umano medico-paziente, un aspetto che spesso da noi si considera ovvio e per questo trascurato e che quindi finisce poi per generare incomprensioni. Invece lì in ospedale per i medici è fondamentale proprio questo: stare in silenzio e ascoltare attentamente il paziente, dal bambino di tre anni all’anziana di settanta, avendone sempre il massimo rispetto, consapevoli che per venire a una ‘semplice’ visita avevano fatto sacrifici economici.
Cosi mi sono ritrovata anche io a cercare di comprendere i loro problemi, ansie e preoccupazioni, talvolta espressi con un filo di voce o con un solo sospiro. Questa esperienza mi ha anche permesso di riscoprire cosa significhi davvero essere medico.
* 24 anni, di Piacenza, quinto anno della laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e chirurgia, facoltà di Medicina e chirurgia, campus di Roma