Si può parlare di crisi della democrazia? La domanda non è fuori luogo se è vero che solo fino a pochi anni fa nessuno dubitava che le democrazie consolidate potessero essere a rischio. «Si individuavano dei problemi di efficienza e di scarsa fiducia ma le basi dei sistemi democratici non sembravano poter essere minacciate» spiega Damiano Palano, docente di Scienza politica e direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica. «Invece da qualche anno, sostanzialmente il punto di svolta principale è il 2016, i politologi hanno cominciato a vedere un aggravamento di alcuni segnali critici che potrebbero indurre delle preoccupazioni. Non sono soltanto questioni interne legate all’ascesa delle formazioni populiste radicali ma è in generale un insieme di fattori che vanno a sommarsi».

Il professor Palano, promotore del ciclo di incontri “La democrazia ha le ore contate?”, prova a individuare le cause di questo repentino cambiamento. 

«Un primo fattore - afferma - è internazionale: da una quindicina d’anni l’espansione globale delle democrazie liberali si è arrestata e ha cominciato ad arretrare un po’. Grandi potenze non democratiche, autocratiche, hanno conquistato un ruolo che fino a una decina di anni fa non avevano nello scenario internazionale: la Russia, la Cina ma anche la Turchia. Per quanto riguarda il contesto europeo è cambiata anche la percezione che i cittadini occidentali hanno dei regimi non democratici, che non sono più visti come qualcosa di totalmente lontano dalle proprie preferenze ma come un’opzione non così negativa».

Ma non c’è solo questo… «Nelle democrazie occidentali si legano insieme delle trasformazioni economiche, con un logoramento del ceto medio che coinvolge tutte le democrazie avanzate; una crisi culturale che è relativa alla percezione che si ha della globalizzazione e dei flussi migratori; e, naturalmente, anche una crisi politica che investe direttamente il rapporto di fiducia tra cittadini e classe politica e colpisce soprattutto i partiti cosiddetti “tradizionali”, che si trovano gravemente in difficoltà».

Ci sono altri rischi? «A tutti gli altri fattori si aggiunge quel grande moltiplicatore che è il contesto comunicativo che favorisce una crescente polarizzazione, che è il punto su cui molti politologi attirano l’attenzione. Quando cresce la polarizzazione, quando si indebolisce il centro politico allora i rischi per la democrazia liberale aumentano».

Si può dire che dopo le tre ondate di democratizzazione stiamo assistendo a un reflusso? «Samuel Huntington quando parlava delle tre ondate di democratizzazione diceva che dopo un’ondata c’è sempre un reflusso, perché le nuove istituzioni democratiche non riescono a resistere e sono soggette a un tracollo. Per noi europei è evidente, soprattutto con la crisi degli anni ’20 e ’30, in cui le prime democrazie nate dopo la Prima guerra mondiale e modificate dall’allargamento del suffragio non riescono a resistere e cedono. Probabilmente questo è in parte vero anche per la terza ondata di democratizzazione: in molti Paesi dell’Est europeo e dell’ex blocco Sovietico questo processo non è mai giunto a termine. E anche per quanto riguarda Polonia e Ungheria le nuove istituzioni democratiche sono messe in discussioni dalle tendenze sovraniste e populiste».

Nel vostro percorso parlate di un mondo senza politica. Cosa intendete? «Usiamo questa espressione in questo senso: dopo il 1989 pensavamo che la grande politica fatta di passioni ideologiche e di grandi scontri fosse un po’ abbandonata e, come diceva il tanto citato Fukuyama, alla fine si trattava soltanto di una serie di contrattazioni prevalentemente economiche. Abbiamo visto che non è andata esattamente così. Però al tempo stesso noi europei, noi occidentali continuiamo a vivere in un mondo alla fine della storia in cui la politica nei vecchi termini è scomparsa e ci troviamo di fronte alla difficoltà di pensare delle strategie adeguate per rispondere a questo nuovo contesto».

Chi è il protagonista di questo nuovo contesto? «Dal punto di vista internazionale quelli che hanno maggiore vantaggio dal fatto che noi viviamo in un mondo senza politica sono Putin, che ha rispolverato le vecchie logiche della politica di potenza e, dall’altra parte, anche la Cina che, con tutti i limiti che ha, possiede però la capacità di progettare uno sviluppo economico-politico con tempi lunghissimi, molto lontani da quelli che un politico di una democrazia occidentale può porsi: sei mesi in Italia, cinque anni in Germania…».

E sull’altro fronte? «L’altro grande protagonista di un mondo senza politica è Donald Trump che, per quanto possa essere considerato un esponente del sovranismo e del populismo e di tutto ciò che c’è di nuovo in questo scenario, ci ripropone una visione del mondo del tutto manichea, basata più sulle emozioni, che una visione complessiva degli equilibri mondiali».

E l’Italia come si colloca in questo contesto? «L’Italia si colloca nella posizione principe. Da trent’anni è il laboratorio di ogni populismo. Prima con il tele-populismo di Silvio Berlusconi, contemporaneamente con quello protestatario della prima Lega di Umberto Bossi e, più recentemente, con il populismo sovranista della Lega di Salvini fino all’altra variante del Movimento 5 Stelle. Paradossalmente come studiosi abbiamo il privilegio di vedere le varietà e i punti di forza e di debolezza di tutte queste esperienze e d’altro canto di osservare come incidono sulla dinamica politica e su quella istituzionale. Non dobbiamo ovviamente confondere la situazione dell’Italia con le sorti della democrazia liberale nel resto nel mondo ma il nostro sguardo da italiani non può che essere particolarmente preoccupato vista la difficoltà di trovare una stabilità per il nostro sistema politico».