di Leonardo Milesi *

Non ero mai stato in India. E in Asia una volta sola, quando a sette anni andai con la mia famiglia in Malesia. Ero ancora troppo piccolo per comprendere fino in fondo le differenze, ma ai miei occhi stupiti tutto appariva strano, meraviglioso e, come ogni cosa che ci è estranea, spaventoso.

Siamo partiti da Milano Malpensa tutti emozionati e anche un po’ intimoriti da quello che avremmo incontrato una volta arrivati il giorno dopo, dopo otto ore di aereo fino a Delhi, cinque di attesa sulle scomodissime sedie dell’aeroporto, altre due di viaggio in aereo e poi tre ore e mezza in macchina, nel traffico indiano. Specifico nel traffico indiano, perché è qualcosa di straordinario. A parte il fatto che guidano a sinistra, cosa cui ci si può facilmente abituare, la scarsa se non inesistente segnaletica è un mero suggerimento che viene categoricamente ignorato.

Ci sono animali, cani, maiali e vacche, e ci sono pedoni che attraversano o camminano e ci sono bici. Poi ci sono i taxi gialli su tre ruote, i tuk tuk, che vanno a zig zag e appena vedono un pedone camminare sul ciglio della strada gli si affiancano chiedendogli se vuole un passaggio per poi reimmettersi nel traffico. Le motociclette che cercano di evitare animali, bici, pedoni e taxi e infine le macchine che fanno lo stesso delle moto, ma con meno agilità, anche se della cosa non sembrano curarsene affatto quelli che stanno al volante. Tutte queste operazioni avvengono poi con una continua colonna sonora di clacson ed esiste un linguaggio segreto che è noto solo agli iniziati. Ci sono colpi di clacson che significano “attenzione” altri sono avvisi (stai fermo dove sei), generalmente ignorati, altri intimano di spostarsi a destra o sinistra, altri sono solo saluti.

L’India è stata una scoperta eccezionale. Al di là dei paesaggi, al di là dei luoghi, al di là dei monumenti e delle città - che nelle tre settimane passate a Warangal non abbiamo avuto comunque modo di vedere - le persone che abbiamo conosciuto ci hanno dimostrato una generosità mai conosciuta, una grande ospitalità che manca a noi europei, una gentilezza smisurata. Non solo da parte degli oltre venti partecipanti al corso, provenienti da nove Paesi diversi. Ma dai bambini incontrati durante le visite sul campo, privi di qualsiasi cosa, e che hanno condiviso con noi tutto ciò che hanno. Il loro entusiasmo, la loro gioia per la vita hanno qualcosa di ineffabile, qualcosa che ci sfugge. Difficile non farsi contagiare dalla loro felicità. Dalla loro emozione per una foto. Selfie, bro?! Da parte delle vedove, le cui storie sono oltre la tristezza e la miseria. Da parte degli abitanti degli slum, che all’inaugurazione di un pozzo ci hanno offerto cocco fresco rotolato nello zucchero e coca-cola. Da parte di chi ci ha accolto.

In queste tre settimane ho imparato molte cose.

Ho imparato che Prakash, che vive sulle Himalaya ma non sa bene dove si trova l’Everest, ama la cultura occidentale, gli piacciono i Metallica e How I Met Your Mother, gli è piaciuto The Revenant, ma ha preferito di Caprio in The Wolf of Wall Street. È molto timido e la sua timidezza si scontra con la curiosità tipica di tutti gli Indiani. Così quando fa una domanda, distoglie subito lo sguardo e sorride imbarazzato come se si fosse spinto troppo oltre.

Sheriful è il più “anziano”, ha 48 anni e viene dal Bangladesh. È il più esuberante con un cuore più grosso delle spalle, e non perde occasione per parlare di sua figlia più piccola, 4 anni e mezzo. Ogni volta che ne parla fa una breve pausa e sorride e poi cerca subito una foto da mostrare.

Mostaque vive a oltre 2mila chilometri da lì e dice che il clima e il paesaggio sono più belli. C’è la giungla dove vive lui. Mi dice che due giorni prima di venire una tigre è entrata in città spaventando tutti. Si sono nascosti nella banca fino a quando non è arrivata la protezione animali che ha sedato la tigre e l’ha riportata nella foresta. They take flesh from people, they’re dangerous, mi dice e me lo dice con una specie di sorriso spiacente, ondeggiando il capo. Sembra quasi dispiaciuto per me perché non può farci nulla.

Aminul viene dal Bangladesh, sorride sempre e canta molto bene. Ha fatto amicizia con tutti nel momento esatto del suo arrivo. E il giorno della partenza, polo rossa e zaino in spalla, aveva gli occhi umidi. We will keep in touch, dice e sale sul taxi che è venuto a prenderlo per portarlo alla stazione dei treni di Kazipet.

Ajith ha 21 anni, è il figlio dell’autista che è venuto a prenderci all’aeroporto di Hyderabad il giorno del nostro arrivo e che ci ha dato il primo assaggio della guida indiana. Per le due settimane di corso, frequenta le lezioni con noi. Ajit si è laureato in computer sciences e ora sta facendo di tutto per essere ammesso all’università del Tennessee, One of the best in the world. Come tutti lì, è estremamente gentile e curioso e generoso. Soprattutto curioso.

La prima volta che ci vediamo, alla lezione della mattina, mi fa un enorme sorriso e mi chiede se voglio che mi accompagni in centro. Incosciente, accetto di buon grado. Cosa c’è di meglio di una guida del posto, penso io. Sono le 10:30, abbiamo mezz’ora di pausa per il tea break. Mi dice che andiamo ora. Lo seguo. Si ferma davanti a una moto. Esito un attimo, ma ormai gli ho detto che mi avrebbe fatto piacere, non posso più tirarmi indietro. Mi guarda e sorride fiero. Provo a sorridere di rimando, mi aspetto che mi chieda se mi fanno male i denti o se ho problemi allo stomaco. Nei primi giorni li hanno tutti, tanto. Mi armo di coraggio e salgo in sella dietro di lui. In 20 minuti, alla velocità della luce (ma poi lancio uno sguardo al contachilometri da sopra la sua spalla e mi accorgo che è solo una mia impressione), sfreccia per le strade dissestate di Warangal, schivando tuk tuk (gli onnipresenti taxi gialli a tre ruote), pedoni, animali, bici, altre moto e chi più ne ha più ne metta.

Cercando di sovrastare il vento, il motore della moto, il suono dei clacson e della città, gli urlo nell’orecchio che dobbiamo tornare altrimenti arriviamo in ritardo alla lezione dopo e devo pagare una multa di 100 rupie, è una delle regole fissate il primissimo giorno. Seriously?!, mi dice girandosi indietro per guardarmi e facendomi salire il cuore in gola. Provo a deglutire, ma il cuore rimane lì e batte più forte. Accenno un movimento del capo e un sorriso sghembo che potrebbe sembrare una smorfia per un dolore di pancia. Si rigira e accelera ancora di più. Non mi resta che la rassegnazione e inizio a godermi gli ultimi istanti della mia vita.

Una sera mi dice che l’India è il miglior Paese in cui vivere, se si hanno i soldi, aggiunge subito dopo. No money, no life, mi dice. Lo dice con una sfumatura di malinconia, mi pare, ma poi torna subito il suo sorriso gigante e penso di essermelo solo immaginato.

Ho imparato anche che parlare la stessa lingua non è essenziale per capirsi, talvolta anzi risulta essere un grande ostacolo. Ho imparato una nuova forma di felicità, che non ho ancora ben capito, non fino in fondo. Ha a che fare con le persone e con i rapporti fra di loro, non con le cose che si possiedono. Ci dovrò lavorare sopra.

Ho imparato tante altre cose, ma i quattromila-caratteri-spazi-inclusi concessimi li ho superati da un bel po’, quindi mi fermo. Le altre cose le tengo per me, le custodisco proprio qui, qualche centimetro sopra il cuore, insieme ad altri tesori che ho raccolto negli anni e che continuerò a raccogliere.

* 24 anni, di Cortona (Ar), secondo anno della laurea magistrale in Filologia moderna, Facoltà di Lettere e Filosofia, campus di Milano