di Gabriele Giuliano *
Era il 13 Agosto quando con la mia valigia piena di pregiudizi e preconcetti sull’Africa mi sono imbarcato insieme a Stefano da Fiumicino alla volta di Ikonda, passando per Addis Abeba, Dar Es Salaam e Mbeya, un viaggio di circa 24 ore. Arrivati all’aeroporto di Mbeya riusciamo a salutare Antonio e Cristina che, avendoci preceduto nell’esperienza, erano pronti per ritornare in Italia. Ad aspettarci dall’altra parte c’è Isostenes, un autista del Consolata Hospital Ikonda, ma anche il professor Rolando Sancassani e uno studente di Brescia, Michele, che saranno nostri compagni di avventura per ben tre settimane. L’ultima parte del viaggio è quella più faticosa: quattro ore in fuoristrada su un percorso buio e sterrato attraverso il quale ci inoltriamo nell’Africa vera, quella dei documentari in tv. Appena arrivati ad Ikonda, abbiamo giusto le energie per mangiare qualcosa e crollare a letto.
Ad Ikonda non c’è tempo per le presentazioni ufficiali o per ambientarsi gradualmente, così il giorno dopo non ancora perfettamente consci di quello che ci aspettava, veniamo catapultati al lavoro in ospedale, e io scelgo di iniziare l’esperienza al reparto di Medicina Interna uomini.
Giunto in reparto scopro che per i circa cinquanta pazienti ricoverati c’è solo un medico strutturato, Michael, giovane trentenne che mi accoglie festoso e contento di avere un collaboratore per le successive settimane. Il primo giro in reparto è estenuante, in cinque ore riusciamo a vedere tutti i pazienti, ma riesco a capire ben poco dal momento che la popolazione locale parla rigorosamente solo lo swahili, ma per fortuna il dottor Michael mi fa da interprete traducendo in inglese.
L’ospedale di Ikonda è una delle strutture più all’avanguardia della sanità tanzaniana, ciononostante non è stato per niente facile, per me neolaureato in Medicina e Chirurgia con il mio sapere fatto di schemi diagnostici-terapeutici più o meno rigidi e costruiti in base alle risorse della sanità occidentale, abituarmi a quel particolare modo di intendere la medicina e seguire i protocolli di cura locali. Da aspirante infettivologo, per esempio, non potevo accettare di non poter impostare una terapia antimicrobica eziologica data l’impossibilità di eseguire colture microbiologiche e altre cose simili.
Ma in questi casi per fortuna è il fattore tempo che aiuta, e giorno dopo giorno grazie soprattutto ai suggerimenti dei medici volontari italiani presenti durante quei giorni ad Ikonda come il professor Massimo Maffezzini, intuisco che forse sarebbe stato più utile abbandonare la rigidità del mio modus operandi e reinventarmi sull’esempio dei medici locali e sulla base delle poche risorse disponibili.
Il risultato è stato un ottimo lavoro di collaborazione con il dottor Michael che mi ha reso sempre partecipe e corresponsabile di ogni caso clinico, mi ha permesso di eseguire procedure invasive e non, e perfino di decidere alcuni trattamenti.
Dopo un’intera settimana passata in reparto, finalmente arrivava il fine settimana, dedicato alle escursioni in zona. Con gli altri medici e studenti presenti, accompagnati dai padri missionari della Consolata, abbiamo scalato montagne che ci hanno regalato panorami mozzafiato e abbiamo vissuto avventure indimenticabili all’interno della natura più selvaggia, florida e incontaminata.
Ad Ikonda c’era così tanto da fare che i giorni passavano davvero in fretta, e subito arrivava la sera, quando con Stefano e Michele, terminata l’attività nei reparti, ci ritrovavamo per trascorrere insieme le ultime ore della giornata. Una delle cose che ricorderò con immenso piacere erano proprio questi momenti in cui durante “l’ora magica africana” che in Tanzania andava dalle 18 alle 19 ci sedevamo insieme ad ammirare il tramonto offerto dal calare del sole che dipingeva il cielo dell’emisfero australe di una sinestesia di colori che neanche il più stimato linguista saprebbe descrivere con le parole e che neanche la più tecnologica delle fotocamere saprebbe catturare. Il tramonto dell’Africa è un’esperienza che va vissuta personalmente perché non è un semplice gioco cromatico sensazionale e repentino, ma è un coinvolgersi di stati d’animo e sentimenti che corrono insieme agli ultimi raggi di sole verso la notte.
Tutti ci dicevano che avremmo sperimentato il mal d’Africa o che questa esperienza ci avrebbe cambiato per sempre. Non so ancora se potrò confermare queste ipotesi, quello che percepisco a un mese dal ritorno in Italia è che l’esperienza non finisce il giorno in cui lasci quel continente ma che l’Africa te la porti nel cuore e da lì dentro continua a lavorarti e a insegnarti tanto, ovunque tu vada, impressa fervidamente nella memoria imperitura, perché in fin dei conti chi va in Africa non la lascia più.
* 25 anni, di Pachino (Sr), neolaureato in Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma