Un’epoca neo-nazionalista ma non necessariamente neo-protezionista. È lo scenario che potrebbe aprirsi con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, secondo Raul Caruso, ricercatore di Politica economica alla facoltà di Scienze politiche e sociali. Una stagione che potrebbe mettere a rischio regimi e istituzioni internazionali, in un mondo che, diventando meno cooperativo, sarà anche più povero. 

«Non penso che avremo una chiara e uniforme politica protezionista» afferma il ricercatore dell’Università Cattolica. «Vi saranno politiche diverse a seconda dei settori. Probabilmente quello dei servizi riceverà più attenzioni rispetto all’agricoltura e alla manifattura. Chi sostiene Trump potrebbe avere maggiori vantaggi nella liberalizzazione dei servizi a livello globale. Non si può dire che tutte le multinazionali esulteranno ma alcune sì. Sicuramente il protezionismo nell’agricoltura non sarà intaccato e, questo, è purtroppo un male per i Paesi più poveri». 

Che stagione dobbiamo attenderci con la presidenza del magnate americano? «Si andrà verso una fase “neo-nazionalista”, in particolare per le relazioni economiche internazionali, ma non è detto che corrisponda a una fase apertamente neo-protezionista. Immagino piuttosto per alcuni Paesi un aumento dei sussidi alle imprese, che insieme ad altre misure non tariffarie, creano meno tensioni con i Paesi concorrenti. Ecco perché i governi li preferiscono. Quindi una fase ‘neo-nazionalista’ apre a maggiori distorsioni del mercato da parte dei governi e a costi sociali elevati, in particolare per i più poveri, a dispetto della retorica populista in voga negli ultimi tempi. Sicuramente regimi e istituzioni internazionali appaiono a rischio. Se il mondo diviene meno cooperativo sarà anche un mondo più povero». 

La Grande crisi non molla la presa, almeno in Europa. Cambierà qualcosa con il nuovo inquilino della Casa Bianca? «Bisogna distinguere tra crisi e declino. La prima per alcuni Paesi è finita con vincenti e perdenti. In altri la crisi del 2008 ha svelato debolezze profonde e ha aperto una fase di declino come per l’Italia. Non penso che il cambio a Washington possa influenzare questa tendenza. Per i Paesi in declino sono necessarie in primo luogo politiche economiche interne per rilanciare lo sviluppo di lungo periodo». 

“The Donald” ha già fatto sapere che i Paesi della Nato devono rispettare gli impegni di aumentare la spesa militare. Aumenterà il peso dell’economia della guerra? «È una certezza. La nuova amministrazione sembra credibile nella sua richiesta. I Paesi europei – purtroppo – si armeranno di più e così anche gli altri. Anche se il riarmo era già cominciato. Purtroppo abbiamo una tendenza alla militarizzazione in particolare in Stati autoritari o in democrazie fragili. La democrazia non deve mai considerarsi scontata. In genere quando aumentano le armi in circolazione le democrazie tendono a perdere forza e consenso. 

Gli esempi non mancano, come spiega nel suo ultimo libro “Economia della pace” (Il Mulino, 2017)… «Abbiamo in giro molti uomini “forti” che aumentano le spese militari in nome di un interesse nazionale spesso manipolato a proprio uso e consumo: Erdogan e Putin sono degli esempi molto chiari in questo senso. Due leader che hanno instaurato un’economia di guerra apparentemente forte, destinata al declino seppur in tempi diversi. Certo i destini del mondo in questo momento potrebbero dipendere dagli equilibri che si creeranno in Asia. Il Giappone di Abe è chiamato a scegliere se rimanere fermo nella sua politica di apertura alla Cina oppure mostrarsi in linea con la linea dura anticinese di ‘The Donald’. In Europa, l’unica vera rivoluzione sarebbe un’ulteriore integrazione nel campo della difesa e dell’industria militare. Solo politiche in questo senso potranno tenere in piedi l’Ue». 

Con queste prospettive come si potrà bilanciare il rapporto tra economia e sviluppo? «Nell’era di Trump la parola “sviluppo” non sarà più sul tavolo di molti leader politici e osservatori internazionali. In linea generale, si apre una fase difficile per i Paesi che avevano intrapreso questa strada. Per quelli più poveri, intrappolati in spirali di guerra e povertà, non sono assolutamente ottimista. Il protezionismo in campo agricolo, il riarmo e i danni derivanti dal cambiamento climatico lasceranno molte regioni indietro. Temo che l’era di Trump possa far avverare alcuni scenari cupi prefigurati dalla letteratura post apocalittica: un nord del mondo ricco, sviluppato ma ostaggio degli autoritarismi, e un sud del mondo desertificato, incapace di uscire dalla trappola della fame e della povertà utilizzato dai Paesi ricchi esclusivamente per lo smaltimento dei rifiuti, la ricerca farmacologica e i test di armi sempre più sofisticate. Spero sinceramente di sbagliarmi».