di Vittorio Emanuele Parsi *

La Nato? Un’istituzione “obsoleta” perché “non si prende cura della guerra al terrorismo”. La Commissione europea? “Uno strumento al servizio di Frau Merkel”, la quale, peraltro, sulla politica di accoglienza ai migranti, ha commesso “un errore catastrofico”, ma di cui occorre fidarsi “nella stessa misura in cui mi fido di Putin”: non importa che una sia la cancelliera del principale alleato americano sul continente europeo e l’altro il presidente del Paese che ha invaso l’Ucraina e annesso la Crimea solo due anni fa. Del resto, proprio le politiche di Angela Merkel sui migranti hanno “provocato la Brexit”, un esempio che “altri Paesi dell’Unione seguiranno presto”.

Sono solo alcune, nemmeno tutte, delle perle di saggezza contenute in un’intervista a ruota libera rilasciata domenica scorsa al Times e alla Bild dal neo-presidente Donald Trump, che il 20 gennaio si insedierà alla Casa Bianca. Ne emerge un quadro desolato e preoccupante dello stato di salute della democrazia americana, che ha consentito l’elezione di un candidato le cui idee sul mondo sono un impasto di pregiudizi da bar e colossale ignoranza: una marea di sciocchezze.

Nelle settimane che lo hanno portato dal giorno della vittoria elettorale a quello dell’insediamento, Trump non ha fatto nulla per assumere la dignitas necessaria a ricoprire la più alta carica della maggiore democrazia del mondo. Semmai è sembrato volersi compiacere di destare scandalo, quasi come un adolescente in crisi di trasformazione.

In un paio di mesi è riuscito a irritare i cinesi, con le sue sparate circa la sindacabilità della cosiddetta “one China policy”, le dichiarazioni tanto muscolari quanto irrituali sulle isole Spratley e gli altri atolli contesi nel Mar della Cina e in quello del Giappone, i dazi sulle importazioni dall’economia del “Dragone”. Ha gettato benzina sul fuoco del Medio Oriente con l’annunciata decisione di spostare la sede dell’ambasciata americana da Tel Aviv – la sola capitale internazionalmente riconosciuta dello Stato ebraico – a Gerusalemme e minacciando di rimettere in discussione l’accordo faticosamente raggiunto due anni fa sul nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA).

Ha offeso senza motivo la Germania, l’Unione e tutti quei Paesi membri della Nato che in 13 anni hanno fornito un contributo alla guerra contro il terrorismo, pagandolo a carissimo prezzo, con oltre mille soldati caduti solo in Afghanistan. Ha strizzato l’occhio a Vladimir Putin, descritto come uno statista affidabile, un amico del quale ha nominato Segretario di Stato.

Al di là del legittimo sconcerto, ciò che preoccupa maggiormente è la considerazione che le istituzioni su cui si è fondato il concetto di Liberal World Order (l’ordine internazionale liberale) possano essere danneggiate irreparabilmente da quattro anni di presidenza Trump. Che cosa il neo-presidente voglia fare dell’Obamacare o del confine messicano, in ultima analisi, sono cose che riguardano gli americani (e i loro vicini messicani, al massimo). Ma il futuro dell’Alleanza Atlantica, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e delle Nazioni Unite ha a che fare con la vita di tutti noi. In queste istituzioni si è incarnata quell’egemonia politica e culturale degli Stati Uniti che ha fatto definire il Novecento come “il secolo americano”. 

Soprattutto per noi europei occidentali, la sconfitta nazi-fascista nel 1945 ha inaugurato uno straordinario periodo di pace e prosperità dopo che il Vecchio Continente si era autoaffondato attraverso la seconda guerra dei trent’anni (1914-1945). Per più di un aspetto, il crollo dell’Unione Sovietica, la riunificazione europea all’insegna della democrazia e del libero mercato, la diffusione delle istituzioni democratiche ben oltre la loro culla europea aveva conferito un nuovo slancio alla golden age postbellica.

È esperienza comune la constatazione di come, sostanzialmente a partire dal nuovo millennio e con una radicale accelerazione dopo la grande crisi del 2007, proprio la relazione tra la democrazia politica e l’economia capitalistica abbia conosciuto una torsione che sta mettendo a dura prova la stessa esistenza di un ordine politico internazionale fondato sulla libertà politica ed economica. La povertà sta colpendo sempre più “il ricco Occidente” e le sue giovani generazioni, mentre la crescita economica dei Paesi in via di sviluppo appare insufficiente a sostenere l’economia mondiale. Ma è soprattutto la diseguaglianza che sta tornando a essere la cifra più inaccettabile del mondo che stiamo lasciando in eredità alle future generazioni.

La leadership di cui oggi il mondo avrebbe bisogno sarebbe quella capace di rimettere in discussione le “certezze del tranquillo passato” – per citare Abramo Lincoln – allo scopo della ricerca di una nuova sintesi, in grado di riavviare un “nuovo umanesimo liberale”, con più opportunità per tutti e molta diseguaglianza in meno. Tutto il contrario di quanto sembra potersi ricavare dagli spezzoni di pensiero che emergono dalle dichiarazioni del nuovo presidente americano. La sensazione è che i quattro anni di questa nuova presidenza saranno, ad andar bene, quattro anni perduti: un lusso che decisamente non potremo permetterci.

* docente di Relazioni internazionali alla facoltà di Scienze politiche e sociali e direttore dell’Alta Scuola in Economia e Relazioni internazionali (Aseri)