A cura di Marta Cascio e Federica Elli

Un iceberg si erge minaccioso e potrebbe affondare l’Occidente. Come capitò al Titanic, rendendo la sorte del transatlantico una metafora senza tempo. Un’immagine emblematica che il professor Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta Scuola in Economia e Relazioni internazionali (Aseri), utilizza per leggere il momento storico che stiamo attraversando. «L’ho scelta non tanto pensando al naufragio quanto al fatto che il Titanic è andato fuori rotta. Anzi, vi è stato condotto scientemente. La nave si scontra con l’iceberg perché viene portato molto più a nord, aumentando la velocità di crociera, per cercare di vincere il famoso Nastro Azzurro nel viaggio d’esordio».

Il nuovo Titanic, secondo il docente di Relazioni internazionali, è il vascello dell’Occidente, «che è andato fuori rotta virando da un ordine liberale classico, impostato durante la Seconda Guerra Mondiale, all’ordine neoliberale che, a partire dagli anni Novanta, si è imposto gradualmente in tutto il mondo e che si era formato come presupposto teorico nel corso degli anni Ottanta. Questo cambio di rotta del vascello neoliberale ci ha portato in prossimità di un minaccioso iceberg. Una virata che ha comportato alcune disillusioni: si pensava che, dopo la guerra Fredda, ci sarebbe stato un sistema fondato sui principi della giustizia, su una più equa distribuzione della ricchezza e su una maggior sicurezza, ma ciò non si è verificato».

Il direttore dell’Aseri, nel suo ultimo libro “Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale” (Il Mulino, 2018), presentato nei giorni scorsi in largo Gemelli alla presenza del rettore Franco Anelli e dei professori Damiano Palano e Massimo Cacciari, descrive le quattro facce dell’iceberg.

La prima è rappresentata dal calo della leadership americana e il riemergere di potenze autoritarie che hanno politiche divergenti rispetto a quelle occidentali, come Russia e Cina. La seconda faccia è la polverizzazione della minaccia legata al terrorismo, ovvero una situazione in cui soggetti anche molto piccoli sono in grado di sconvolgere il nostro sistema. La terza faccia dell’iceberg è l’affaticamento delle democrazie schiacciate tra populismo e tecnocrazia, visibile anche nello squilibrio interno tra economia di mercato e democrazia politica.

«Abbiamo assistito a una oligopolizzazione sia del mercato sia della democrazia, che ha prodotto due risultati divergenti» afferma il professor Parsi. «Da una parte, la negazione degli effetti negativi che la globalizzazione ha prodotto sui ceti medi, attuata attraverso la trasformazione della democrazia in un ristretto comitato decisore a favore degli interessi più forti; dall’altro, una reazione che viene definita di stampo populista, che in qualche modo cerca di chiudere il sistema domestico rispetto alle spinte destabilizzanti che vengono dall’esterno. Questa chiusura, in Europa, spesso assume la forma di un sovranismo identitario, ma al di là delle etichette e delle “scomuniche”, resta il fatto che se lo spazio di rappresentanza dei malesseri non viene occupato, qualcun altro lo occupa».

L’ultima minaccia è quella legata alla deriva revisionista degli Stati Uniti, che con Trump stanno apertamente contestando l’ordine internazionale, che è tuttora a fondamento della potenza americana. «Trump è riuscito a fondere nella sua ricetta, da un lato la plutocratizzazione della democrazia e dall’altro il populismo».

Che cosa può fare l’Occidente per evitare la collisione? «Sostanzialmente riportare la nave dell’ordine liberale sulla giusta rotta, che è quella della consapevolezza che il sistema economico, essendo all’interno di un sistema sociale, non può disinteressarsi delle conseguenze che produce sulla società. Il profitto è quello che si misura in termini economici, ma se questo avviene a scapito dell’impiego della manodopera e abbiamo un sistema economico che è assolutamente bulimico di capitale ed è completamente anoressico in termini di forza lavoro (i lavoratori sono sempre in eccedenza), siamo di fronte a un problema che va governato».

Una missione impossibile? «No, se solo guardiamo all’accordo tra sindacati e Confindustria in Germania per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Che significa l’alternanza dell’appropriazione dei frutti dell’incremento di produttività tra capitale e lavoro».

Il mercato è un sistema per organizzare la produzione e la distribuzione, non è un sistema per regolare le società. Questa funzione spetta alla democrazia o ad altri sistemi politici. Recuperare in Europa questa tradizione è possibile, bisogna cercare le partnership e dare forza all’Europa.

Risulta quindi indispensabile tornare a occuparsi anche dell’agenda dei ceti più deboli. A partire da una delle questioni più calde nel dibattito politico in Europa e causa di grande instabilità nel Mediterraneo: i migranti. «Se diventassimo consapevoli che l’Unione Europea è uno spazio politico i cui confini collettivi devono essere difesi insieme, anche il problema delle migrazioni diventerebbe un “di cui”, all’interno della questione più complessiva della cittadinanza europea, della sicurezza collettiva. Non è una cosa facile. Ma se non iniziamo a ragionare su come fare, non sarà mai possibile».