Il tempo del Coronavirus visto come una grande occasione. È una delle chiavi di lettura che viene dai talk live che hanno accompagnato, nella fascia preserale, le giornate del #FestivalUnicatt. Al di là della grave emergenza del Covid-19, con tutta la sua scia di dolore e di paura, è possibile un’interpretazione diversa di questo periodo sospeso, cercando di coglierne qualche risvolto positivo, perché sappiamo che l’uomo è centrale per ricostruire il tempo che verrà.

Un primo aspetto è legato all’accelerazione dell’uso delle tecnologie digitali. «In maniera forzata stiamo vivendo quello che da diversi decenni la ricerca sta sperimentando come risorsa del digitale, ovvero l’emancipazione dallo spazio e la flessibilizzazione dei tempi» afferma il professor Pier Cesare Rivoltella. «La promessa con cui queste tecnologie sono sbarcate in Italia nei primi anni ’90 era proprio quella di non spostarci per poter svolgere attività professionali e poter occupare gli stessi tempi per attività professionali e personali e anche di formazione».

Secondo il pedagogista l’emergenza che stiamo vivendo ci costringe a vivere queste dimensioni in due prospettive: «C’è chi sta provando a reduplicare spazi e tempi della vita fisica anche nell’online, credo con scarso successo. Sta riuscendo a trovare prospettive vincenti chi, invece, si mette nella prospettiva di riprogettare completamente sia il proprio stare nello spazio che il proprio stare nel tempo. Vale per il tele-lavoro come per la scuola a casa. Una situazione interessante soprattutto nella fase di rientro nella cosiddetta normalità».

Lo sguardo del professor Rivoltella si focalizza su scuola e università. Tutti hanno cercato di far fronte alle necessità della situazione ma il risultato è stato una situazione a macchia di leopardo. «C’è chi ha interpretato la distanza semplicemente come una remotizzazione della presenza, cercando di riprodurre l’aula anche attraverso lo schermo digitale di un computer e una connessione internet; c’è chi invece, con più efficacia, è partito dal presupposto che occorresse riprogettare la situazione didattica, che è fatta di una triangolazione tra il docente, lo studente e i saperi. Questo vuol dire interpretare l’università e la scuola non come luoghi in cui si insegna ma in cui si apprende. Se il punto di vista cambia e fa centro sullo studente, nella didattica a distanza se si riproducesse la frontalità trasmissiva si finirebbe per produrre drop out precoce, mandare in sovraccarico cognitivo lo studente che sta dall’altra parte dello schermo, provocargli problemi seri di economia dell’attenzione». 

È un cambio completo di prospettiva. «Nel distance learning occorre attivare lo studente, occorre metterlo al centro di un sistema complesso fatto di tante risorse, con un ribaltamento della didattica, il cosiddetto flipped learning, che vuol dire dare importanza al momento sincrono, il momento dell’incontro e dello scambio non per trasferire informazioni ma per discutere, per fare problem solving, per fare troubleshooting, dopo aver anticipatamente messo a disposizione degli studenti audio-lezioni, video-lezioni, materiali di simulazione, materiali di approfondimento, con delle guide efficaci di accompagnamento. Tutto questo permette allo studente di individuare i problemi e di discuterli poi nell’aula virtuale con il docente. La relazione educativa non si perde, perché a fare la differenza non sono gli strumenti ma l’intenzionalità». L’occasione di questo tempo eccezionale non sarà sprecata se finita l’emergenza non ci sarà un ritorno alla fase precedente, con un approccio restaurativo che archivia l’importanza di riprogettare la didattica.

Riscoprirsi improvvisamente fragili

Una lettura culturale della fase del Coronavirus è quella che propone il professor Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea e affermato scrittore. 

«La percezione che abbiamo in questo momento, pur essendo immersi nella cronaca, è che questo sia un passaggio epocale» afferma. «Se io dovessi pensare fra due, tre, quattro anni quando mi potrebbe venire in mente di fare qualcosa legato a questo discorso narrativo, penserei questo: i primi venti anni del secolo, del nuovo millennio sono cominciati con le Torri Gemelle e sono terminati con la pandemia. Abbiamo aspettato il terzo millennio con tutte le prerogative di un’epoca felice, migliore, e ci siamo accorti - e questo ci ha molto deluso, almeno a me ha deluso - che il nuovo millennio non rispettava le sue promesse, non rispettava le speranze che noi avevamo creduto di vedere in lui».

Le speranze deluse hanno generato il dubbio: questo primo ventennio è cominciato con un attentato epocale e terminato con un’epidemia globale. Con quale risultato? «Abbiamo capito la nostra fragilità. Se dovessi raccontarlo punterei molto su questo tema: l’Occidente che credeva di essere una geografia forte, robusta, imbattibile, scientificamente ed economicamente attrezzata, si è invece scoperto di un’infinita fragilità. In un mese e mezzo abbiamo fatto debiti, ci sono stati posti di lavoro perduti, aziende in crisi. Ma a essere in crisi è la nostra identità». 

Non è detto, però che scoprirsi fragili sia solo un male. Può essere un punto di partenza per guardare avanti. «Il problema ora è ripensare al tempo di dopo – osserva il professor Lupo –, non soltanto agli errori commessi, a non farli più, ripensare a disegnare il tempo che verrà, lo spazio geografico che verrà. Questo disegnare dipende molto dai giovani e quindi dalle università che saranno in grado di preparare questi giovani: è la nostra responsabilità».

Una rivoluzione nel pensiero

Quello che serve, probabilmente, è una rivoluzione nel pensiero. Che è quanto che il professor don Roberto Maier, docente di teologia nella sede di Piacenza, legge nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. «È un documento strepitoso non solo per cosa dice ma perché il Pontefice, senza proporre una cosmologia, una grande visione della natura e dell’uomo nella natura come forse ci si aspetterebbe, invita a pensare insieme, a pensare meglio e anche a pensare diversamente». La scoperta che questo tempo, come ha detto Papa Francesco in Piazza San Pietro, ci costringe a renderci conto che siamo tutti sulla stessa barca, dovrebbe spingerci «a cambiare il modo di pensare e questo nuovo modo di pensare l’umanità lo aspetta da molto tempo, perfino da secoli. È un grande tema che non è più eludibile. E questo è il grande messaggio della Laudato si’».

Numeri, dati, algoritmi

Al centro di questo processo c’è sempre l’uomo. Anche quando siamo di fronte a numeri, dati e algoritmi. Ne è convinto il professor Daniele Tessera, informatico della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali. 

«Spesso quando si fanno analisi non si ha disposizione il data set ideale che è stato creato proprio per quel tipo di studio. Spesso con le tecnologie informatiche vengono raccolti enormi volumi di dati che sono eterogenei e sono stati destinati agli scopi più disparati. Però questi dati spesso nascondono la verità, le leggi di quello che vogliamo studiare e quindi li dobbiamo analizzare. In alcuni casi è molto facile integrarli ma deve comunque intervenire la competenza e la conoscenza del dominio, cioè di cosa rappresentano questi dati. Allora non c’è una regola generale, non c’è una regola astratta che va bene per tutti e questa competenza è anche quella che stimola la nostra fantasia nell’intuire come potrebbero essere fatte le leggi che governano questi dati e, quindi, è un valido supporto per poter sviluppare modelli che descrivono queste leggi e ci permettono di comprenderle meglio, di comprendere eventuali relazioni causa ed effetto. Quindi è la natura che guida l’analisi non viceversa».