In un Medio Oriente già attraversato da continue crisi, si sono aggiunti in questi giorni due preoccupanti nuovi focolai di tensione. Il primo è rappresentato dalla decisione di Arabia Saudita, Egitto, Bahrein e EAU di rompere ogni rapporto diplomatico e commerciale con il Qatar, accusato – con un linguaggio particolarmente diretto e brutale – di fomentare il terrorismo, di proteggere i movimenti dell’attivismo politico islamico (i Fratelli Musulmani) e di essere troppo vicino alla Repubblica islamica dell’Iran, ormai divenuto il nemico metafisico dei sauditi. Un’azione che lacera ulteriormente un mondo arabo già profondamente diviso.

Il secondo elemento è il doppio attentato compiuto dallo Stato Islamico a Teheran contro due luoghi simbolici del nezam (il sistema di potere post rivoluzionario iraniano): il mausoleo del fondatore della repubblica islamica, ayatollah Khomeyni, e il Majles (parlamento). Da tempo il gruppo jihadista, ridotto alla difensiva in Iraq e Siria - anche grazie alla determinazione dell’Iran nell’organizzare e coordinare milizie sciite che si sono rivelate militarmente decisive – aveva minacciato attacchi contro questo Paese. Del resto, nella visione dogmatica e paranoica del califfato jihadista, gli sciiti sono considerati come apostati, peggio dei non credenti: l’ostilità è quindi non solo geopolitica ma anche dottrinale.

Con questi attacchi, che seguono la sequenza continua di attentati definiti di low tech terrorism in Europa, lo Stato Islamico dimostra la sua capacità di “cambiare fronte” e di reagire alle sconfitte territoriali con la ripresa del terrore. Ma emerge anche la vulnerabilità della Repubblica islamica dell’Iran, una realtà molto meno monolitica di quanto si creda dal punto di vista etnico e religioso. In questi anni, sauditi e pakistani, ma anche statunitensi e israeliani hanno soffiato sul fuoco dell’insoddisfazione delle minoranze non persiane e non sciite, in particolare nella regione desertica del Baluchistan o nelle province del sud-ovest, popolate da comunità arabe e sunnite. In Baluchistan, ad esempio, la radicalizzazione dei movimenti sunniti si è unita all’irredentismo etnico, oltre che ai grandi traffici di droga che partono dall’Afghanistan. Un brodo di coltura di fanatismo e violenza che Teheran fatica a controllare.

La conseguenza indiretta di questi attacchi è che indeboliscono anche la posizione del presidente Hassan Rouhani, appena rieletto al primo turno nelle elezioni del maggio scorso. Nonostante il compattamento del fronte conservatore e ultra-conservatore, egli è riuscito a mobilitare nuovamente l’elettorato moderato e riformista, cogliendo un importante successo elettorale, mostrando ancora una volta il ristretto sostegno popolare verso le politiche degli organi non elettivi (primo fra tutti la Guida suprema, ayatollah Khamenei), che pure detengono la maggior parte del potere. 

Rouhani da tempo sta cercando di limitare lo strapotere delle milizie rivoluzionare, i potentissimi pasdaran, che ormai sono una sorta di Stato nello Stato e controllano centri di potere militare, politico e economico-finanziario. È evidente che il diffondersi del terrorismo sunnita nel Paese, e la crescente ostilità radicale del mondo arabo sunnita (spalleggiato dall’Amministrazione Trump e da Israele), non possano che rafforzare ulteriormente le politiche di securitation propugnate dai pasdaran. Se si moltiplicano i nemici della rivoluzione e se essi riescono a colpire nella stessa capitale, allora diventa molto più difficile – e pericoloso – cercare di limitare il ruolo delle forze deputate per prime alla difesa dell’Iran. Da questo punto di vista, l’estremismo sunnita e la retorica violenta dell’Amministrazione Trump contro Teheran servono perfettamente agli scopi della parte più oscura del nezam, e viceversa.