L’articolo di Laura Silvia Battaglia, giornalista feelance, collaboratrice e inviata di diverse testate internazionali e coordinatrice della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica, esperta di Paesi arabi e mediorientali, tra cui il Libano, fa parte dello speciale dedicato alla tragedia del Paese dei cedri e intitolato Apocalisse a Beirut, implosione di un Paese


di Laura Silvia Battaglia * 

Il primo pensiero è andato all’Uovo. A come quel luogo - un cinema situato nel cuore della città, costruito nel 1965 e mai finito a causa della guerra civile, un luogo precario, incredibile e simbolico per quel conflitto ma, ancora di più per la recente rivoluzione, la “thaura” dei mesi scorsi - possa essersi ridotto e cosa possa essere successo a chi, accidentalmente, poteva trovarsi lì. 

Perché la notizia dell’esplosione al porto di Beirut da 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio che ha ucciso, al momento, 130 persone, ferito 5mila e lasciato senza casa 300mila, mi ha investito, come spesso accade ai giornalisti, da dietro uno schermo mentre – ironia della sorte – preparavo la rassegna stampa internazionale del giorno e mentre i social crepitavano di video apocalittici, dove l’esplosione, devastante, si vedeva da almeno dieci angolazioni diverse. 

Era già accaduto nel 2001, l’11 settembre di chi in quella memoria già lavorava come giornalista e che, senza molta esperienza e tanta speranza, veniva catapultata con un paio di frame televisivi nella serie di attentati terroristici che avrebbero cambiato la nostra vita e la nostra storia. Adesso, questa esplosione è ugualmente scioccante ma è tutto il resto ad essere diverso: perché quella scena l’hai vissuta, in proporzioni minori ma ugualmente mortali, in altre città di questo Oriente, Medio o Vicino poco importa, sistematicamente funestato da scosse di violenza che fanno saltare il banco di interi quartieri, di intere città. Kabul, Baghdad, Mosul, Misurata, Il Cairo, Sanaa: dopo avere visto queste immagini di Beirut, stavolta, a distanza di venti anni da 9/11 sai esattamente che non è la vista il senso più colpito, se fossi stata lì. È l’udito, l’olfatto, sono le viscere: l‘odore della sostanza chimica esplosa, l’ammasso di detriti carbonizzati, di carne aperta su ferite inimmaginabili se non su un lettino operatorio. 

La guerra o la distruzione, ho detto molto volte, non si vede: si odora. E resta attaccata alle viscere senza alcuna speranza di potere essere estirpata. È una ferita che il più delle volte non si vede ma ci riguarda, e che, anche in questa città del Medio Oriente che in una decina di anni ha cercato di risalire l’onda dei suoi traumi precedenti ripiombando in un presente ancora più nero, ci chiede di interrogarci sulle multiple responsabilità della politica, della finanza, dei gruppi armati, delle mafie ma soprattutto di tutte le istanze della popolazione e dei suoi giovani da anni gridate e rimaste, non solo senza risposta, ma  anche senza ascolto. 

Ieri l’amico Ayman Mhanna, un giornalista di spessore, che si occupa di protezione dei giornalisti nel suo Paese, scriveva sui social, in un – insolito per lui – conato di indignazione e rabbia: “Rifiuto questa commozione da social media #pregateperBeirut. Certo, aiutiamo chi non ha nulla, oggi. Ma nessuna giustizia, nessuna riconciliazione, nessuna preghiera è concessa per gli assassini di centinaia di persone. E questi assassini si chiamano il presidente del Libano, il premier, i ministri, il partito di Dio, il capo dell’intelligence e gli uomini delle dogane. Tutti costoro non sono solo responsabili. Sono dei criminali. Sono degli assassini”. 

Nelle parole di questo giovane uomo sempre misurato, posato, conciliante, c’è tutta la rabbia dei giusti libanesi che oggi, per comprare un chilo di carne devono spendere 40 dollari, a causa della devastante crisi economica, appena il giorno prima del disastro. Sono persone di tutte le età e strati sociali ma sono soprattutto giovani che ho incontrato in questi anni e dai quali ho ascoltato le storie e le richieste di cultura, lavoro, libertà di espressione ma soprattutto equità nella redistribuzione economica delle ricchezze e trasparenza da parte di una classe politica fallimentare, poco importa se rappresentasse le comunità locali cristiane o musulmane, cattoliche o ortodosse, sciite o sunnite. 

Nell’ottobre 2019 ero dentro l’Uovo, insieme ad almeno 200 studenti della AUB, l’American University di Beirut, che mi aveva invitato a tenere una lezione per il dipartimento di design sul graphic journalism, ossia come raccontare le guerre usando il fumetto. In quelle due ore di “eggupation” – così veniva chiamato il sit-in permanente durante la rivoluzione di quei mesi - ascoltando anche la lectio di Charbel Nahhas, mi sono resa conto della quantità enorme di pensiero politico depositato in questa generazione e allo stesso tempo soffocata dai suoi governanti e controllori. Nelle strade, in quei giorni, ho incontrato Loic, mezzo francese e mezzo libanese, front-man di una band metal, i “Phenomy”. Loic mi aveva detto, candidamente: «Ho scelto il metal perché canto la rabbia della mia generazione ma anche perché continuo a credere nella pace e la musica ne è espressione». Ieri, dopo essermi assicurata che fosse ancora vivo, mi ha scritto laconico, svuotato: «Laura, non ho nemmeno la forza di scrivere un’altra canzone».

* Middle East and Italian correspondent TRT World/RSI/The Week/Al Jazeera arabic/Index on censorship
Radio host Rai Radio3, director, journalist
Coordinatrice della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica 


Nella foto: Loic, frontman della band metal "Phenomy", agita la bandiera libanese durante una delle proteste dell'ottobre 2019 - by Laura Silvia Battaglia, Beirut, Libano, ottobre 2019